30 gennaio 2008

The RUR L.A. FAUNE Box

Mi tocca ora sdoganare su Pillaloo un altro dei grandi feticci del mefitico MondoWeird. Dopo le cassette e i cdr… i box in edizione limitata. Ruralfaune è una microlabel francese di cdr messa su dal simpatico Bruno Parisse. La grandeur transalpina aleggia anche su queste musiche per pochi intimi e Bruno lo ha già dimostrato assemblando lo scorso anno una tripla compilation chiamata Frannce in combutta con La Belle Dans La Merci (altra micro label…) e manco a dirlo dedicata alla Francia e ai suoi valori (libertè, egalitè e poi non ricordo cosa c’era più…).

Ora l’attenzione di Ruralfaune si sposta dall’altra parte dell’oceano e getta un occhio, un orecchio e anche qualche altra cosa, sulla scena californiana. The Rur L.A. Faune Box è in pratica il gemello americano del box Birth of a New Rural Europe che comprendeva uscite di Valerio Cosi, Sawaadyja e The Reggaee. La tiratura del boxset europeo era di 35 copie, quella di questo californiano di 10 copie in più. Quindi sono 45 esemplari in tutto e basta così. Il packaging è semplice. Bruno è andato nei boschi intorno ad Angers in Francia, li dove abita lui, ha raccolto un sacco di legname e ne ha ricavato una serie di bastoncini di vimini per poi legarli l’uno all’altro. Il boxset europeo era invece fatto con le canne (nel senso proprio di canne da canneti…). Dentro questa confezione naturalistica ci ha infilato i 4 dischi che compongono il boxset e che ora descrivo rapidamente:

Rur030
CHANGELING
"Animals in Exile"

Changeling è il nome d’arte (odio l’espressione “moniker”… ma chi diavolo l’avrà tirata fuori dico io…) di Roy Tatum un tale che si dedica a mettere nella sua musica esattamente le cose che piacciono a me: dilatazione, ipnosi, trance, droni d’oltretomba che vanno e vengono, voci di spettri che si lamentano. Animals in Exile è un ottimo disco che miscela tutto questo è ottiene 5 tracce una più dispersa e disperata dell’altra.


Rur031
INSANIACS

"Age of Rust"

Gli Insaniacs sono una nuova sigla che unisce Roy dei Changeling di cui sopra e l’indaffaratissimo Britt dei Robedoor. La musica infatti è esattamente l’ibrido che ti aspetti. Assomigliano agli Skaters che jammano con i Robedoor. Ovvero, folate di noise in bassissima fedeltà e rantoli mefitici dall’oltremondo. Un’unica traccia di 28 minuti e i vostri cervelli se ne vanno a passeggio in un mondo in rovina. Da prendere a piccole dosi, ma se state leggendo Pillaloo siete già rovinati di vostro quindi dateci sotto.


Rur032
POCAHAUNTED

"Pocahaunted"

Le Pocahaunted… le adorabili pocahontas inquiete. Non faccio mistero della mia passione per queste due sballate. Le ragazze sono carine e quindi hanno spezzato diversi cuori in quel di L.A. Sull’attività della Not Not Fun e dei loro magnifici artwork non dico nulla. Segnalo più che altro che questo loro “self titled” comprende 2 tracce che aspettavano da un anno di essere pubblicate. Roba di archivio quindi e anche un po’ acerba. Non il migliore dei lavori del box ma essendo femmine a loro è toccato il packaging con i colori rosa.


Rur033
VxPxC

"I see a Fire in the Distance"

I VxPxC sono un altro ensemble del cazzo che riesce a farsi piacere dal sottoscritto. Sono in tre. Hanno varie ramificazioni… il più attivo è Grant Capes di Phantom Limb, ma qui mi preme più che altro segnalare il lato blues di questa musica da drogati. In questo caso una frasettina di chitarra suonata alla bell’e meglio si stende languida su un panorama alterato fatto di rumori, echi di radio, samples e cazzate di ogni tipo. Brad Rose segnalava la capacità dei tre di usare l’elettronica. A beh..certo… questa musica non musica ha un’innegabile qualità scenografica. Non chiedetemi di distinguere un disco dall’altro… ma datemene ancora, ancora e ancora.

29 gennaio 2008

Stella Richards

Questo mio intervento stamattina esula dall'andazzo generale che è per lo più ludico, ma sarò breve così ritorniamo a cazzeggiare.

Mi sono trovato a parlare con Adam Richards di House Of Alchemy non più tardi di una ventina di giorni fa, in merito all'ultimo disco dei Peonies. Ora vedo che House Of Alchemy ha chiuso i battenti e Brad Rose su Foxy Digitalis ha messo un avviso in testa alla homepage.
Alla figlia di 10 mesi di Adam, Stella, è stato diagnosticato un cancro. E che cazzo!

Stanno provvedendo alle cure mediche in un ospedale di Buffalo, ma a quanto ho capito servono soldi per coprire le spese della chemioterapia e tutte le altre faccende mediche che si rendono necessarie.

Beh. Grant Capes di Phantom Limb e (VxPxCx) sta preparando un doppio disco benefico. Intanto ha predisposto una pagina di spiego: stellarichards e su ebay vende cdr il cui ricavato va sempre li. Fine dell'appello umanitario.

28 gennaio 2008

The Futurians - “Untitled Space Junk”; Golden Cup "Eye Mith" (8mm Recs, 2007)

I Futurians detengono un record, almeno dalle parti di casa mia: sono gli autori del disco peggio registrato tra quelli che mi sono ritrovato tra le mani in anni di frequentazioni fin troppo disinteressate a concetti quali “alta fedeltà”, “qualità del suono”, e altre sottigliezze simili. Trattavasi, a onor della precisione, del nastro uscito un annetto fa per JK Tapes, l’etichetta di Peter Friel su cui – sono sicuro – torneremo a breve. Per quel che mi ricordo non aveva nemmeno un titolo, ma una volta infilato nella piastra quello che ne usciva era una mondezza tale che, tuttora, non sono sicuro si trattasse dell’effettiva sporcizia della registrazione o della cassetta rovinata dalle intemperie. Chissà. Tutto questo per dire che quando Luca della 8mm mi ha dato questo “Untitled Space Junk”, avvertendomi che “sembra registrato col walkman”, non mi sono né allarmato né stupito: i neozelandesi avevano dalla loro un precedente tale che ero pronto a tutto. Fortunatamente, almeno questa volta, quello che proviene dalle testine un senso ce l’ha, e anzi, ci teniamo tutto sommato dalle parti di un lo-fi disgraziato quanto si vuole, ma in ogni caso perfettamente comprensibile. Forse che Luca Massolin utilizza una marca di cassette migliore di quella di Peter Friel? Forse che i neozelandesi non hanno voluto esagerare in lordume, visto che in fondo, anche in passato, non si sono mai segnalati per estremismi troppo spinti (almeno a che mi ricordi)? Sia come sia, “Untitled Space Junk” è un bel nastro per grezzo garage-rock un po’ psichedelico un po’ “no”, una specie di punk per uomini della pietra sfatti dalle droghe, che tanto piacerebbe ai fan di Magik Markers (i primi) e Teenage Jesus, non fosse altro che per la voce di Beth. Non so con quale formazione si presentino oggi i Futurians, certo che il progetto è sempre stato una specie di supergruppo della scena neozelandese (in mezzo i vari Antony Milton, Stefan Neville, Clayton Noone), anche se, in fondo, di neozelandese il gruppo ha poco, perlomeno se col termine in questione intendiamo le astrazioni free noise che vanno dai Dead C a Birchville Cat Motel. Qui semmai a ripresentarsi è l’altra Nuova Zelanda, quella semidimenticata degli anni ’80 che pure tanto si spese sia in lerciume che in riscoperte del verbo sixties, il tutto travisato e rigurgitato per allietare le orecchie dei freak-noisers anni 2000. Musica fatta con le budella per le budella, ecco qua.

Tornando a Luca Massolin, quando non è impegnato con le colate dark-laviche (???) dei Nastro Mortal, eccolo che tira fuori il suo lato più etereo, sognante, ma ugualmente – ci mancherebbe – rovinatissimo col progetto Golden Cup. Siamo sempre dalle parti di una drone music in bassa fedeltà, direi quasi cosmico-campestre, tutta giocata su reiterazioni e scampanellii dell’oltretomba, solo che questo è un oltretomba per nulla cupo o orrorifico, risultando anzi piuttosto (ehm…) sereno nel suo dipanarsi all’infinito, anche se su distanze invero abbastanza contenute. Recentemente mi è capitato di riflettere spesso su come questo suono eterno e in fondo già storicizzato – il drone, per capirci – negli ultimi anni si sia saputo reinventare su basi al tempo stesso fedeli alle origini eppure attualizzate in chiave… chiamiamola neoprimitivista, tiè. Il paradosso – temporale innanzitutto – è evidente, eppure è questo un suono che lo senti e lo riconosci al volo, e che nonostante le apparenze non può che venire da questi anni e da queste latitudini. Ascoltate i vortici ascendenti di Panavision e ditemi se in quella pasta sgranata, sibilante, ipnotica e deforme, non sta il meglio di una scena che tra mille difetti e mille capolavori mancati tanto sta dando alle musiche “altre” dei 2000. “That was punk – this is now”, recitava ai tempi una delle mie etichette preferite, e chissà perché lo slogan mi torna in mente proprio adesso.

Citazione d’obbligo per le belle copertine e per il packaging ad hoc. Ma stiamo parlando della 8mm, e questo dovreste saperlo già.

22 gennaio 2008

Odd Clouds - Cleft Foot Of The Woods (Tasty Soil, 2007)

Negli ultimi tempi sono in fissa assoluta per questo disco. Non riesco a staccarmene, davvero, perché letargico com’è ti avvolge, ti stordisce e ti si appiccica addosso come carta moschicida. Allora, giusto due parole per inquadrare la cosa. Lui si chiama Chris Pottinger ed è l’ennesimo virgulto dell’affollatissima scena noise del midwest. Di Detroit precisamente.
Come scritto a pagina 43 nel manuale del perfetto nerd subculturale, il nostro s’è costruito la sua brava etichetta discografica, la Tasty Soil, e i suoi bei progettini sconclusionati: Cotton Museum, Slither (li con Heath Moerland di Sick Llama) e Odd Clouds per l’appunto.
E’ poi illustratore/designer sommariamente art brut -nel sito personale trovate un’ampia gamma di disegni, manifestini, spillette, cover (mancano solo i fumetti se non erro)- e gira inoltre per mostre, anche importanti, in luoghi istituzionali. Insomma, una situazione da tenere d’occhio con una certa attenzione.
L’altro band leader si chiama Jamie “Jimbo” Easter, anch’egli illustratore, scultore, pittore, nonché membro di un altro progetto alquanto interessante, ossia Drona Parva (non quelli su Time-Lag); che poi è/era anche l’ugola dei ben più conosciuti Piranhas (ricordate?). Li, oltre a cantare, si trastullava sfregandosi cocci di vetro sulla faccia. Un vero animale.

Dunque, tornando a Pottinger, che è poi il motore principale degli Odd Clouds, devo dire che inizialmente ero piuttosto scettico sulla bontà del disco, e anche si, parecchio prevenuto.
Ok, non ho mai ascoltato i Cotton Museum, però ecco, le suite in bassa fedeltà degli Slither non mi dicevano molto. Non per la resa lo-fi delle registrazioni -d'altronde qui ci occupiamo di musiche weird, quindi…- quanto invece per l’irrisolutezza che l’impianto sonoro mostrava nel complesso. Nello specifico, si tratta di un impasto mal amalgamato di droni, elettronica e suoni trovati, il tutto rigorosamente improvvisato (o assemblato a caso?). Troppo abulici per i mie gusti e onestamente un po’ amorfi, anche se non disconosco loro un certo appeal. Con un po’ di fantasia mi viene di accostarli ai Graveyards, beh a dei Graveyards che frugano nell’immondizia e che non riescono a cavarne fuori un suono pulito che sia uno, o quantomeno un attimo di lucida follia improvvisativa.
Quindi gli Odd Clouds. Come si fa non amarli? “Cleft Foot Of The Woods” è uno spettacolo già solo per la copertina, comunque poco efficace nel suggerirne il contenuto, ho pensato a posteriori. Si, perchè a prima vista lascia intendere si tratti di un disco ultra noise spastico e devoluto, o almeno io ho percepito questo.
Invece no. Certo il primo pezzo (sono undici tracce senza titolo, concepite nell’arco di tre anni, alcune delle quali registrate durante esibizioni live) è una mazzata percussiva non indifferente. Qui la batteria inscena, senza variazioni, una linea ritmica ossessiva, mentre un drone strisciante e svisate (free) di sax danno corposità e ne supportano l’incedere.

Con la seconda traccia inizia la fase di deambulazione sonnambula, che s’interrompe solo a tratti, o meglio in corrispondenza dei pezzi registrati dal vivo. Entra in gioco un basso drogato a inscenare crepuscoli psichedelici, implosioni improvvise, abluzioni in polveri stellari, per un sound complessivo che non esiterei a etichettare come post rock (che brutta parola, lo so). Chiaro, un post rock da discarica a cielo aperto, o giù di li.
In effetti però, è più una sensazione epidermica, perché anche gli Odd Clouds mi sembrano poco definibili. D’altronde quando la produzione è quella che (non) è, pur con tutta la buona volontà dei musicisti, resta difficile diversificare i suoni. A differenza degli Slither, nonché di molta weird music odierna, qui c’è un indirizzo preciso tuttavia, e soprattutto dinamiche “d’interlplay” ben coordinate. Come nella tracce 4 e 7, dove ingarbugliamenti di free jazz deteriorato -alla Ettrick direi- interrompono l’idillio morfinico. Come la traccia 9, che viaggia per ventiquattro minuti sulle medesime coordinate, in equilibrio instabile tra composizione e improvvisazione.
Va bene, non starò a descrivervi tutto l’ambaradan, anche perché a questo punto rischierei di annoiarvi ulteriormente, però insomma, sapete cosa fare no?

20 gennaio 2008

Air Conditioning - The Ocean (Callow God, 2007)

Naturalmente bisogna cominciare a parlare di cassette. In quel magma sotterraneo che scorre nei bassifondi del nuovo noise americano la cassetta per molti gruppi rappresenta un passaggio obbligato. Sinceramente, ho perso il conto di tutte le tape-label che in questi ultimi anni sono spuntate come funghi un po' in tutto il mondo ma che hanno negli States un preciso punto di riferimento. Non è un fenomeno nuovo del resto, già negli anni '80 c'erano una manciata di etichette simili, ed è utile ricordare almeno il ruolo che ebbe ad esempio l'olandese Staalplaat nella diffusione e nella circolazione di questo formato all'interno di certe sonorità di area post-industriale. Negli anni '90 le cassette sono state più che altro un veicolo promozionale per gruppi alla ricerca di un contratto, soprattutto in ambito metal, e potevano arrivare a vendere anche più di un migliaio di copie, mentre negli anni 2000 ha avuto una rinascita decisiva con tanto di etichette specializzate, specializzate anche in packaging fantasiosi, come nei casi della Deathbomb Arc e della JKTapes. Eppure, nonostante sia una strada ormai così battuta, la cassetta continua a essere affare di pochi aficionados e a essere fuori moda, obsoleta e sfuggente per natura, nonostante in un quel gran covo di nerd-catalogatori che è Discogs possiate trovare certosine annotazioni di molti dei nastri che hanno circolato, e appunto circolano tuttora, nella "scena", anche quando sono usciti rigorosamente in 20 o 50 copie. Ecco che allora anche gruppi "affermati" come gli Air Conditioning - o altri gruppi che come loro hanno avuto una loro consacrazione, arrivando magari a pubblicare per etichette come Load e Sub Pop - continuano a far uscire materiale fuori dai circuiti ufficiali. Tanto per restare nel caso particolare "The Ocean" è uscita qualche mese fa in 100 copie per l'interessantissima Callow God e spacca, ma spacca sul serio. Tanto per dire a me piace più del loro ultimo album "Dead Rails", e ci ritroviamo per le mani tre pezzi densi e urticanti come non si sentiva dai tempi di "Weakness". E se parte un po' in sordina con le solite frequenze disturbate di Peace and Quiet (forse pensata come una specie di intro) è con gli altri due pezzi che il gruppo di Allentown, PA si conferma fra le migliori realtà "noise-rock" ancora a piede libero. Ovviamente minimali come al solito sul booklet non ci sono informazioni su chi suoni cosa o a quando risalgano le registrazioni, ma diamo ovviamente per scontata la presenza del pachidermico Robert Jurgensen al basso e di Matt Franco alla chitarra. Il primo lato si chiude con Sickness and Health, equilibrio che si risolve invitabilmente a favore della malattia, fra colate noise, pedali torturati e corde maltrattate in un riuscito tripudio di feedback lancinanti e forse delle parti "cantate" che emergono qua e là. Sulla stessa linea, ma se possibile ancora più devastante, il secondo lato che contiene un unico brano di quasi 18 minuti, Superior Galaxies, che dello spazio siderale sembra registrare solo le collisioni fra asteroidi, esplosioni di supernovae e eruzioni solari. L'ultima parte invece sfuma in una comunque inquietante metamorfosi fatta di effetti, echi e dissonanze fino a spegnersi del tutto, in attesa di ricominciare il supplizio. Ineguagliabili.

16 gennaio 2008

Robedoor - Rancor Keeper (Release The Bats, 2007)

La prima volta che m’imbattei nei Robedoor non sapevo chi fossero, ne da dove venissero. Il classico ascolto cieco che non volli corroborare neanche con la rituale ricerca webbica, quella che ti dice subito chi, come, dove e perché, e che toglie forse un po’ di magia all’atto. Desideravo provare nuovamente il gusto dell’ascolto a sorpresa, e maledizione, valutando a posteriori fu un errore decisivo. Ora, si dà il caso che in quel periodo gli altoparlanti del mio stereo fossero quasi del tutto fuori uso, massacrati (un triste giorno) senza pietà dalle frequenze impossibili dei Wolf Eyes, a cui aveva fatto immediatamente seguito una retrospettiva sugli Unsane…si si me l’ero cercata.

Comunque, avete presente il tipico fruscio da cassa sfondata che sembra divorarti i timpani, e che all’aumentare del volume diventa sempre più denso e disarticolato? Questi sono i Robedoor e non scherzo. Cioè, il suono oscuro e raggelante me li fece inizialmente scambiare per Vidna Obmana o una cosa simile, poiché attribuii quel grattugiare fastidioso ai subwoofer oramai spacciati. Così rimasi piuttosto esterrefatto quando scoprii che quelle pozze stagnanti di melma dronica non erano per niente frutto degli altoparlanti sfasciati. Si insomma, il tutto si risolveva in un bell’impasto di Skaters, Double Leopards e Skullflower, con un po’ di dark ambient vecchia maniera ad aromatizzare la portata. Invero, una miscela potenzialmente esplosiva.

Detto questo, gli album dei Robedoor sono praticamente tutti uguali, quindi sentito uno sentiti tutti. Eppure ogni ascolto è una discesa in un diverso girone dell’inferno, qualora si riesca a superare l’impatto discretamente doloroso con il loro wall of sound spesso e impenetrabile, sia chiaro.
E questo “Rancor Keeper”? Iniziamo col dire che trattasi di un cd vero e proprio -non del solito cd-r, formato che i Robedoor utilizzano parecchio- uscito a fine dicembre sulla benemerita Release The Bats. Sono quattro tracce di drone ambient lo-fi avariato, inquinato da scorie radioattive e inserti proto-noise virati in salsa tribale. Come? Che diavolo dico? Avete ragione. Diciamo allora che “Rancor Keeper” è il top della mondezza rumoristica -va bene così?- e il signore mi fulmini se sto dicendo il falso.

Quattro tracce da ambulatorio come una sola suite senza soluzione di continuità. Buchi neri che collassano, “voci“ spettrali che emergono dal profondo, facce che sbucano dalle mura in piena notte, malattie mentali che si fanno suono. Insomma, coltri su coltri di rumore disastrato, inquietante, che mi ricordano i solaris post nucleari del neozelandese Clinton Williams AKA Omit.

Sicuri di volerlo ascoltare? Mah, ai tempi del militare ho visto marcare neuro per molto meno…

Fecalove + Mutant Ape + Oubliette + Torturing Nurse - Eiste Skilohissia (Obelisksounds, Shasha, Turgid Animal 2007)

Quattro nomi, quattro paesi e – accidenti! – ben tre continenti e mezzo, dal momento che, si sa, gli inglesi hanno sempre avuto problemi a definirsi europei.

Va bene, da dove cominciare: come forse avrete intuito dal titolo, “Eiste Skilohissia” è un album a – uhm... – quattordici mani se non vado errato, nel senso che almeno un gruppo dovrebbe contare quattro elementi, mentre per gli altri progetti coinvolti vale la definizione di one man act. I nomi in questione sono: Fecalove (Italia), Oubliette (USA), Torturing Nurse (Cina – loro sarebbero i quattro di cui prima) e Mutant Ape (Inghilterra). Vorrei intanto spendere due parole su Oubliette, l’uomo a cui si devono le immagini promozionali del vinile, se di promozione è lecito parlare. Allora, forse qualcuno di voi si sarà imbattuto in un paio di curiose foto, che ritraggono la copertina in bianco&nero del disco (qui in alto a sinistra) in mezzo a zucche e campi coltivati. Ebbene, quella è casa sua, di Oubliette. Perché lui fa il contadino a Clyo, in Georgia, e a quanto pare campa vendendo ortaggi nei mercati ortofrutticoli della zona, attività che incidentalmente gli permette di spendere soldi in pedali, effetti, microfoni a contatto e consueto armamentario harsh. Oubliette deve avere una vera e propria passione per il frutto arancione: anche i suoi tentativi “artistici” (illustrazioni, foto ecc) ritraggono in primo luogo loro: le zucche. Particolare che rende il nostro un po’ più umano, dal momento che, musicalmente, inutile starvi a dire che di rumore puro si tratta, o quasi.

L’album è diviso in due parti, una per lato: sul primo, i quattro collaborano tutti assieme per nove moncherini schizofrenici e incasinati, solo fischi, rasoiate, atroci brandelli pseudoelettronici, sventolate noise e convulsioni a rotta di collo. L’operazione, alla sua maniera, riesce e sa anche essere divertente, nonostante alla resa dei conti sia difficile districarsi tra i vari brani, che un po’ si assomigliano tutti. Certo, a prestare attenzione saltano all’orecchio particolari e differenze anche “importanti”, del genere una voce più urlata sulla traccia 2, una più strozzata sulle tracce 5 e 6, una totalmente assente su tutte la altre. Ma non credo che i diretti interessati si siano preoccupati di sottigliezze simili, quindi giriamo lato e vediamo che succede.

Dall’altra parte del vinile i quattro stanno ognuno per i fatti propri, ciascuno con una traccia a testa. Il contributo a firma Mutant Ape è quello che preferisco, forse perché è l’unico che prevede una qualche forma di “ritmo”, se per ritmo intendiamo l’inevitabile drum machine destinata a sopperire sotto macerie di detriti harsh. La cosa comunque è meno prevedibile di quanto si pensi: gli svolazzi space all’inizio e il ritorno alla quiete finale regalano al brano un respiro che lo fa quasi assomigliare a una (ma sì, diciamolo) canzone.

Oubliette, dal canto suo, gli dà giù di zucca-noise, ovviamente. In effetti si sente che è un contadino: il suo è il brano più rozzo, ignorante e buzzurro dei quattro, oltre che quello registrato peggio. Musicalmente potremmo descriverlo come il suono di un motore ingolfato filtrato da un imbuto di plastica, ecco. Ho un debole per quest’uomo, non so se è chiaro.

Fecalove invece, essendo toscano, è anche il più raffinato. Diciamo che se gli altri prevedono un totale di tre/quattro suoni al massimo, lui sa arrivare a una buona decina tra ronze, fischi, scoregge, balbuzie ed eruzioni varie. È un po’ il John Wiese dell’album, mettiamola così, ma in termini di demenza batte il californiano un 10 a 0 facile.

Per chiudere, i cinesi Torturing Nurse fanno bella mostra di una chitarra che naturalmente è sottoposta a supplizi di tutti i tipi: l’effetto è molto japanoise, roba tipo Solmania nel tritacarne per capirci. Mi riprometto sempre di approfondire la scena di Shangai e dintorni: se il futuro è la Cina, voglio essere preparato.

Copertina made by Tisbor (cioè Fecalove), vinile bianco e parata di stelle transcontinentale. Nei soliti giri ha fatto il botto: facile capire il perché.

8 gennaio 2008

Heather Leigh Murray – Devil If You Can Hear Me (Not Not Fun, 2007)

Heather Leigh Murray ha il phisique du role di una perfetta Olivia. E’ magrissima, altissima e se non portasse quelle lenti così spesse potrebbe anche sembrare più carina e meno nerd (osservatela pure sulla copertina del suo precedente Give The Ashes To The Indians). Heather Leigh arriva dal Texas. Un Texas che è prima di tutto uno “stato mentale” per dirla con Lansdale. Uno stato (mentale) senza contrade o quartieri che annulla i confini e rovescia tutto dentro. Lei è cresciuta nella stessa Houston dei Charalambides, ma dà l’impressione di girare sonnambula per le stanze disadorne della propria casa. Al massimo può concedersi una boccata d’aria per le stradine intorno. Magari un giorno si è pure imbattuta in uno, alto e magro come lei. Uno che faceva foto alle cose più disparate. Uno come Jandek di cui Heather Leigh ha mandato a memoria tutta la discografia. Oppure due come Tom e Christina Carter con cui pure si è beneficiata di collaborare. Con Christina ha persino condiviso il progetto Scorses. In seguito si fa vedere sempre con la gente giusta. Con Thurston Moore, Paul Flaherty, Chris Corsano e Matt Heyner crea i Dream/Aktion Unit. Dopo di che la avvistiamo nella mafietta weird made in Glasgow di Volcanic Tongue. Con David Keenan e Alex Neilson erige dal nulla i Taurpis Tula e collabora attivamente alle molteplici questioni dell’ormai celebre mailorder. Un po’ di dubbi quindi sono del tutto leciti nel vedersi l’ultimo disco della Nostra immediatamente sulla “punta della lingua”. Devil If You Can Hear Me viene licenziato da Not Not Fun e in copertina ha una foto di lei con il volto completamente oscurato dai raggi di un sole che spunta malizioso da una collinetta. Sembra quasi una citazione di Vision Creation Newsun dei Boredoms. La musica è un lunghissimo stream of conciousness con un unico torrente sonoro infettato alla fonte di una pedal steel guitar quanto mai sul solco di Susan Alcorn, un’altra texana sgraziata, sua mentore e cattiva maestra. Il lato A è completamente coperto da Porch Fighter, un blues acidulo alla maniera del Jandek elettrico. Il lato migliore però è il lato B. Wrecking Crew manda certosinamente le note in dissolvenza. Una ad una, con calma implacabile. Il disegno musicale lentamente acquista le fattezze di una melodia spastica, anemica per non dire proprio catatonica, ma disturbante il giusto. Come se Loren Connors avesse problemi di ciclo mestruale. La chiusura con Candy Butcher aumenta ancora di più lo stato di depressione e catalessi. Un loop cigolante e malaticcio, come un carrillion caduto per terra e diventato stonato. Lei canta dapprima altissima e solitaria, un po’ verginella sacrificata, un po’ sirena di mezzanotte. Poi man mano che il minutaggio aumenta (in tutto sono 21 minuti) il diavolo entra disperatamente in circolo ed è come se la perdessimo per sempre. La chiusura finale è da horror: niente più suoni ed effetti, risuonano solo le sue parole: “I don’t know who I am / I can’t find my way”. Signore e signori è il blues. Qualcuno chiami l’esorcista, il diavolo l'ha ascoltata.

5 gennaio 2008

Traum - Raw sense of humor (Brokenresearch, 2007)


E' soprattutto un fatto di estetica, nonchè di geografia e spazio, naturalmente. A dirla tutta la copertina di questo esordio dei Traum, quasi certamente destinato alla vita viziata ma un pò solitaria del figlio unico, rimanda a visioni cimiteriali che diremmo texane (vuoli per l'incipit di Texas Chainsaw Massacre, vuoi per le ben note immagini fornite dalla Corwood Industries per allestire l'artwork del primo tribute-album dedicato a Jandek su etichetta Summersteps). Cionondimeno, come tipico di ogni emissione targata Brokenresearch, l'immaginario è irrimediabilemente midwest. Drammaticamente midwest se mi si passa il termine, e si fa mente locale sul fatto che il rumore del midwest non è poi cosa tanto recente, basti pensare anche solo all'hard-core a firma Negative Approach o anche al post-punk / noise-rock / post-rock dilagante a quelle latitudini tra gli '80 e i '90. Quasi tutti ricorderanno gli Shellac, ma quanti tengono a mente un disco come "Accident" degli Omaha? Album di non particolare ferocia, esempio di quel tentativo antispettacolare di trait d'union post-punk / post-rock che a metà '90 imperversava, eppure memorabile per una copertina tragica e inquietante (che invito a ricercare) pur nel contesto di sonorità algide e scabre, certo, ma non così perturbanti alla fine.
Ecco allora il midwest dell'ineluttabilità della tragedia. Cosa aspettarsi dunque da un gruppo che ha la programmaticità di chiamarsi Traum?
Beh, poco di diverso dalla solita, austera, traballante e fuligginosa estetica Brokenresearch. Come al solito sono della partita i Death Knell, anche titolari dell'etichetta, ossia Hans Buetow (violoncello) e Ben Hall (percussioni), coadiuvati questa volta da Zac Davis, chitarrista leader dei Lambsbread, band dedita all'impossibilità di suonare altro che non sia psichedelia rock desperate che a inizio 2007 inondò, fin quasi ad intasare, il mercato dell'esoterismo weird dei cd-r e della paccottiglia auricolare che tanto ci piace.
Il disco invero di psichedelico ha molto poco, trattandosi di improvvisata abbastanza convenzionale, dai contorni comunque sottili, sinuosi pur nell'inevitabile rimando a prammatiche primitiviste, ma certo caratterizzato da dinamiche piuttosto aperte rispetto al più controllato suono dei Graveyards (la band più celebre del giro midwest-impro, e dunque Brokenresearch). Come lo Spontaneous Music Ensemble costretto a suonare in ristrettezze, tra incidenti stradali, tramonti bruciati, cieli offuscati, whiskey di bassa lega e polvere che si solleva nell'aria.

3 gennaio 2008

Vegas Martyrs - The Female Mind (Troubleman Unlimited, 2007)

Che Dominick Fernow, ai più noto come Prurient, sia un fan di black metal e derivati, è cosa nota. Che fosse anche un chitarrista, oltre che un assassino del microfono a contatto, lo sapevamo pure. Che i Vegas Martyrs siano la sua risposta all’ultranoise per chitarre di gente come Air Conditioning, è ugualmente chiaro a chi ha presente le comparsate su 7” e compilation che hanno preceduto l’uscita in vinile (verde, a chi interessasse) di questo “The Female Mind”. Che personalmente ho aspettato con trepidazione, arrivando ai tempi a preordinarlo con qualcosa come due mesi di anticipo. Poi il postino arriva, molla il pacco, lo ascolto, dico “bello”, e lo mollo lì. Forse perché l’estate non era la stagione adatta?

Bene: adesso che piove, fa freddo, e ho comprato la prima confezione di noci&mandorle dell’anno, posso dirvi: “The Female Mind” è una delle cose più devastanti, deprimenti e oppressive del 2007. I Vegas Martyrs sono un trio, con Fernow accanto a Joe Potts (percussioni) e Richard Dunn (elettronicheria e “ringhio”), e a far male, fanno male. Suoni sempre saturi, strumenti ridotti in poltiglia, atmosfere da armageddon, ansia e bad vibrations a valanghe: per chi scrive, significa poco meno che “esaltante”, e personalmente la chiuderei qui. Però maledizione, sentite quel capolavoro di disperata distorsione che è Acamprosate: c’è persino un accenno di melodia torcibudella seppellito sotto detriti e detriti di scorie che sembrano un disco dei Mars lasciato a squagliarsi sotto il sole e mandato a 33 giri invece che a 45. Oppure Teenage Jesus che coverizza Burzum, o anche viceversa. O gli Ildjarn che si mettono a fare doom. O Whitehouse che intona una nenia folk.

“The Female Mind” sarebbe in realtà un nastro del 2005, che la Troubleman ha ristampato in edizione limitata, ma poco importa. È un grandissimo disco, anche se ovviamente piacerà solo a quei tre o quattro fissati di black noise. Ma loro lo sanno, di essere i giusti.

[pubblicato originariamente su random delicatessen]