26 agosto 2008

Factums - "A Primitive Future - Original Soundtrack" (Assophon, 2008)

I Factums hanno sempre avuto un certo gusto per le copertine dei loro dischi. “Alien Native” piazzava un paio di semiaborigeni pittati e nascosti da copricapi strani, “Spells and Charms” un insetto-fossile, “The Sistrum” tre mostri marini mezzi uomini e mezzi pesci. Metteteci poi le loro esibizioni live e la collaborazione col videoartist Brent Watanabe, e avrete più o meno un risultato del genere:


Insomma, quello che voglio dire è che il trio di Seattle una sua estetica precisa ce l’ha. Viene da pensare a un mondo al tempo stesso preistorico e futuribile, sfasato e un po’ selvaggio, alieno come furono alieni i panorami di Residents e Men’s Recovery Project, due nomi che – guarda caso – paiono influenzare in maniera profonda l’operato del gruppo. Prima ancora che fare musica, i Factums suggeriscono un immaginario: recentemente mi è capitato di scambiare un po’ di chiacchiere con loro, e tutti e tre hanno molto insistito sugli aspetti “visivi” della faccenda. Che questo “A Primitive Future” sia quindi concepito come original soundtrack di un film che non esiste, e che già nel titolo dichiari l’universo di competenza (un “futuro primitivo”, appunto), non stupisce granché. Ah già, e poi c’è la copertina: raffigura una foresta di felci sfocata, ambigua, come immersa in una nebbia che potrebbe appartenere tanto a una Terra dei primordi quanto a un pianeta parallelo. E’ il mondo dei Factums, quello stesso dove scorrazzano gli aborigeni selvaggi e i mezziuomini del mare.

La musica viene di conseguenza. “A Primitive Future” è il più sperimentale tra gli album del trio, il che sembra inevitabile visto il concept alla base del progetto. Qualunque sia il film di cui il disco è colonna sonora, deve trattarsi di un film dalla trama labile e dalle immagini, più che rovinate, guastate da un tempo misurabile in ere geologiche: i suoni arrivano dal nulla e nel nulla spariscono, le trame sono astratte, le geometrie incerte, e la sola Lotus, piazzata tra l’altro quasi in apertura, sembra ricordarsi (seppur vagamente) della vecchia forma-canzone, trascinandosi per diversi minuti di cavalcata in consueto stile Chrome-Cabaret Voltaire. Il resto dei brani si muove tra balbettii analogici, voci filtrate, e improvvisazioni in circuit bent, il tutto ricoperto – come al solito – da una coltre di bassa fedeltà che è da sempre lo strumento aggiunto del trio. I riferimenti stanno ancora in quel postpunk di confine che lega assieme Throbbing Gristle e Minimal Man, Residents e Factrix, Sheffield industrial e San Francisco Subterranean, ma la sensibilità è di stampo garage, e la prassi molto simile a quella dei noisers anni 2000. Mancano, si diceva prima, le canzoni, e un po’ è un peccato perché dopotutto sono le canzoni a fare dei Factums un’insolita eccezione a cavallo tra scelleratezze out e istintività weird punk. Ma le lunghe, estenuanti Basin e Looking for the Armpit of a Snake suonano morbose e assillanti come meglio non potrebbero, e a tal proposito ha ragione la Assophon (qui al suo terzo numero di catalogo; l’etichetta è legata a stretto giro con Sublime Frequencies e Sun City Girls) quando ipotizza una versione sci-fi di roba alla Dead C. Non male.

10 agosto 2008

Dredd Foole - Kissing the Contemporary Bliss (Child of Microtones; 2005; Family Vineyard; 2008)


C’è una cosa che dovreste sapere prima di acquistare questo album, ma anche (e forse soprattutto) prima di ridurlo (o scaricarlo) in mp3. Questo album contiene fantasmi.

Letteralmente, e adesso vi spiego perché. Ho le prove inconfutabili.

Siccome stiamo ad agosto e dacchè non posso più riempire sacchi di barbabietole durante l’estate mi ritrovo a dover fare i conti con la spiacevole contingenza di dover fare le ferie i primi 15 di agosto. Naturalmente la situazione mi ha colto impreparato e siccome non sono aduso a programmare le ferie con quei 4 mesi di anticipo mi ritrovo a casa, immerso in un caldo pernicioso e con nulla in giro da fare che non siano concerti di salsa, sfilate di moda provinciali, feste sfinenti e barcollanti sulla spiaggia e passeggiate scialbe e guardare le magliette e le scarpe che tirano quest’anno (e nessuno pensa mai ai calzini!). Ad ogni modo la Family Vineyard ha la bella pensata di ristampare questo doppio cd uscito in cd-r nelle solite ridicole 99 copie nel 2005 su Child Of Microtones, l’etichetta degli ubiqui Matt Valentine ed Erika Elder. La ristampa del disco ha riportato la mia attenzione su Dredd Foole, personaggio chiave della New Weird America per come la battezzò David Keenan nel 2003 all’indomani del Brattleboro Music Festival e sorta di grande vecchio della scena tutta, ma su questo torniamo dopo.

Il punto è che finalmente mi ritrovo per le orecchie un bel po’ di sano stoned-folk sbrodolante psichedelia e solitudine. Niente di meglio come sottofondo per le mie escursioni notturne alla ricerca del fresco nelle strade spoglie e tra le case meno ovvie della mia cittadina. Bello, fresco e riconciliante. Capita poi che me ne torno a casa, piuttosto tardi, e mi butto a letto dopo aver riposto, spento, sul comodino il lettore di mp3 reduce da una sessione di una cinquantina di minuti del folk disastrato di Foole. Fuori c’è vento, le tapparelle sbattono e si sente qualche sibilo. Forse addirittura troppi, tant’è che aprendo gli occhi scorgo una terrorizzante luce blu alla mia destra. Mi levo abbastanza di soprassalto e scopro che il lettore si era acceso e dalle cuffie provenivano gli ululati acustici di Foole. Forse non l’avevo spento bene. Lo spengo di nuovo e mi rigiro ma tempo altri 3 minuti e il fenomeno si ripresenta. Accendo la luce, scuoto la testa e spengo nuovamente il lettore, curandomi di premere il tasto di spegnimento più a lungo del necessario. Chiuso e mi rimetto a letto ma, manco a dirlo, ancora una volta gli echi del wild-folk di “Kissing the Contemporary Bliss” si ripresentano al mio orecchio sinistro. A questo punto smembro letteralmente il lettore e gli levo pure le pile. Quella notte poi ho dormito fino a mattina. I fantasmi almeno delle pile hanno bisogno.

Vorreste poi sapere della musica? Beh, per quanto mi riguarda è la cosa migliore di Foole, grande anche per i suoi innumerevoli difetti.

Dell’uomo si sanno all’incirca queste cose: Dan Ireton classe 1950 pare che abbia alle spalle un’esperienza estemporanea in una garage-band nei 60’s, nell’area di Boston in cui ancora risiede. Negli 80 realizza due album e qualche singolo coi Din, che di fatto erano il Volcano Suns, formazione di Peter Prescott, ex batterista dei Mission of Burma (i quali furono la backing band di Foole nei suoi primissimi singoli). In questi dischi, improntati a un rock aggressivo dalle tinte post-punk ma nella sostanza non poco tradizionalista e memore dei ’60, spicca soprattutto la voce autoritaria, non bella e nemmeno troppo intonata, di Foole che ha una capacità spiccata e probabilmente innata di conferire drammaticità a quello che canta. Negli anni ’90 i Din faranno un altro disco (che non ho ascoltato) e la formazione annovererà gente come Thurston Moore, Chris Corsano e i Pelt.

Da solista il suo primo album, “In The Quest Of Tense” del ’94, pare che abbia colpito in profondità parecchie orecchie (cioè, il disco ha venduto un cazzo, ma è arrivato alle orecchie giuste): almeno Matt Valentine, i Charalambides, Jack Rose e Ben Chasny, gli uomini chiave della New Weird America e del festival di Brattleboro, al quale partecipò Foole, ovviamente, ma anche un vecchio ancora più vecchio come Michael “The Snock” Hurley. “In The Quest Of Tense” è piuttosto simile a “Blue Corpse” di Jandek (tra i preferiti di sempre di Christina Carter, guarda un po’), nel suo afflato buckelyiano e nella sua solitudine disperata. Le differenze sono che Foole cerca di suonare leggermente meglio del roscio texano e che con la voce emette vocalizzi liberi e animaleschi, a loro modo persino lievi, che non esistono nell’ancor più monocromatica musica del “collega”.

Ad ogni modo questo “Kissing the Contemporary Bliss” è il secondo disco realizzato da Foole con Valentine e la Elder (dopo l’inferiore Daze on the Mounts, già ristampato l’anno scorso) e anche il non poco importante banjoista Coot Moon, che contribuisce ad alleggerire la ridondanza di brani come Walk Right In e a dare sostanza terrena al deliquio di Boom Boom. Il punto è che anziché brancolare nelle ombre di un folk stralunato e strastonato come nelle uscite precedenti c’è molto più spazio per il blues, le acusticherie spinose e gli spazi vuoti. La voce, che è la sua caratteristica migliore, si sente anche meno del solito ma il disco rimane molto bello. Valentine e la Elder sono i collaboratori ideali del nostro, perché capacissimi di destreggiarsi in maniera profonda, spirituale e professionale insieme, nei mille rivoli della cosa psych-folk, laddove Foole è un musicista semi-autistico ma capace di superare in un attimo e di gran lunga il flebile duo per intensità interpretativa, imprevedibilità, senso di dannazione e lieve sentore di cialtroneria.

Che dire, trattasi di folk acustico tradizionalissimo dilatato e disastrato a dovere, con qualche sporadica accelerazione slide (la dylaniana Girl From The North Country), impregnato di voci livide e fantasmi veri (l’impaurito astrattismo di Above Ground Friend , prossimo al Keiji Haino sublime e lunare di “To start with, let's remove the color”), qualche parentesi strumentale più lieve e interlocutoria in mezzo ai cocci rotti, ai giochi di specchi elettrici e ai sommessi e per lo più irriconoscibili omaggi ai maestri (oltre a Dylan anche Robert Johnson, Washington Phillips e Gus Cannon