30 marzo 2009

Social Junk – Concussion Summer (2008, Not Not Fun), o di quando l’1.0 ha ancora qualche cartuccia da sparare


Vengono dal Kentucky e sono in tre i Social Junk (una è una ragazza), hanno alle spalle il solito profluvio incontenibile di cassette, cd-r e porcate varie, ma soprattutto hanno l’insolenza di produrre musica accattivante, pur senza discostarsi minimamente dai dettami della shit-music 1.0. Lo rammento a chi si fosse sintonizzato in queste lande solo di recente, o non avesse la necessaria confidenza coi disastrati landscapes musicali del dopo p2p. In sostanza questi ragazzotti del Kentucky, stato invero abbastanza avulso dalle scene canoniche, producono un free-noise animalesco e primitivo, fatto di percussioni che si accatastano disordinate una sull’altra, rumorismi di origine incerta, ma sempre scrostati e trogloditi, i soliti guaiti soffocati nella caciara e un senso molto degradato di lascivia psichedelica da portarsi in spalla. Nulla di molto diverso da quanto vanno facendo miriadi di band di ultranicchia e nessuna appetibilità commerciale in lungo e in largo gli Usa, ma non solo, da parecchio a questa parte.
Non è una novità che il noise non picchi più duro in virtù dell’efficacia di agguerrite sezioni ritmiche o di brucianti intuizioni alla sei corde, e se d’altro canto certe brutture harsch non sono mai passate di moda (e anzi hanno trovato nuove ribalte) certo è che, per quanto probabilmente nati e proliferati in virtù di una inconsulta ed epifanica reazione violenta a qualsiasi tipo di prevedibilità nella prassi musicale (manco fosse il peggiore dei morbi), di gruppi free-noise-moan-tribal-esoteric-staminchia ne abbiamo veramente ascoltati troppi, e infatti ora vanno forte certe difficili, e poco ortodosse, unioni con la forma canzone, ovviamente la più sfasciona possibile.
E allora perché perdere tanto tempo sui Social Junk e il loro Concussion Summer? Semplice, perché è un bel disco, anzi, diciamo pure un gran bel disco, una volta tarati i parametri sul genere di riferimento. I Social Junk, tanto per dire, danno l’impressione di essere a conoscenza del concetto di post-produzione, o magari di quello di composizione preventiva, difficile a dirsi, ma il punto è che i brani hanno quasi sempre durate cristiane (salvo su nastro, ma nemmeno sempre, e poi che diavolo volete da un nastro?), che il suono, per quanto miserabile, è gestito con oculatezza, non sbroda né sbraita troppo, e poi ci sono addirittura finezze tipo la registrazione della voce su canali diversi che si affastellano lievemente, conservando la scarsa prevedibilità in un contesto che, orrore!, pare davvero canzonistico, vedi la melliflua House Fire, abbandono psichedelico di scuola Charalambides. Per il resto riecheggiano nei vasti scenari da day after evocati dal disco, i caldi venti acidi e sepolcrali che si levavano dai solchi dolorosi del Bad Moon Rising di sonica memoria, ed è proprio il levarsi di una consapevolezza matura all’interno di un genere che proprio per effetto del programmatico eccesso di indulgenza, rischia di celare a orecchie sordide e affamate i suoi lamenti migliori. Che sia tormento ed estasi, una volta ancora, e senza bisogno di tecnica, e senza bisogno di superominismi, e senza paura di ricadere in cliché appannati e antipatici, che siano botte di vita, grezze e frantuma cranio, senza motivo, senza monito e senza morale. Ma anche senza esagerare.