I Factums hanno sempre avuto un certo gusto per le copertine dei loro dischi. “Alien Native” piazzava un paio di semiaborigeni pittati e nascosti da copricapi strani, “Spells and Charms” un insetto-fossile, “The Sistrum” tre mostri marini mezzi uomini e mezzi pesci. Metteteci poi le loro esibizioni live e la collaborazione col videoartist Brent Watanabe, e avrete più o meno un risultato del genere:
Insomma, quello che voglio dire è che il trio di Seattle una sua estetica precisa ce l’ha. Viene da pensare a un mondo al tempo stesso preistorico e futuribile, sfasato e un po’ selvaggio, alieno come furono alieni i panorami di Residents e Men’s Recovery Project, due nomi che – guarda caso – paiono influenzare in maniera profonda l’operato del gruppo. Prima ancora che fare musica, i Factums suggeriscono un immaginario: recentemente mi è capitato di scambiare un po’ di chiacchiere con loro, e tutti e tre hanno molto insistito sugli aspetti “visivi” della faccenda. Che questo “A Primitive Future” sia quindi concepito come original soundtrack di un film che non esiste, e che già nel titolo dichiari l’universo di competenza (un “futuro primitivo”, appunto), non stupisce granché. Ah già, e poi c’è la copertina: raffigura una foresta di felci sfocata, ambigua, come immersa in una nebbia che potrebbe appartenere tanto a una Terra dei primordi quanto a un pianeta parallelo. E’ il mondo dei Factums, quello stesso dove scorrazzano gli aborigeni selvaggi e i mezziuomini del mare.
La musica viene di conseguenza. “A Primitive Future” è il più sperimentale tra gli album del trio, il che sembra inevitabile visto il concept alla base del progetto. Qualunque sia il film di cui il disco è colonna sonora, deve trattarsi di un film dalla trama labile e dalle immagini, più che rovinate, guastate da un tempo misurabile in ere geologiche: i suoni arrivano dal nulla e nel nulla spariscono, le trame sono astratte, le geometrie incerte, e la sola Lotus, piazzata tra l’altro quasi in apertura, sembra ricordarsi (seppur vagamente) della vecchia forma-canzone, trascinandosi per diversi minuti di cavalcata in consueto stile Chrome-Cabaret Voltaire. Il resto dei brani si muove tra balbettii analogici, voci filtrate, e improvvisazioni in circuit bent, il tutto ricoperto – come al solito – da una coltre di bassa fedeltà che è da sempre lo strumento aggiunto del trio. I riferimenti stanno ancora in quel postpunk di confine che lega assieme Throbbing Gristle e Minimal Man, Residents e Factrix, Sheffield industrial e San Francisco Subterranean, ma la sensibilità è di stampo garage, e la prassi molto simile a quella dei noisers anni 2000. Mancano, si diceva prima, le canzoni, e un po’ è un peccato perché dopotutto sono le canzoni a fare dei Factums un’insolita eccezione a cavallo tra scelleratezze out e istintività weird punk. Ma le lunghe, estenuanti Basin e Looking for the Armpit of a Snake suonano morbose e assillanti come meglio non potrebbero, e a tal proposito ha ragione la Assophon (qui al suo terzo numero di catalogo; l’etichetta è legata a stretto giro con Sublime Frequencies e Sun City Girls) quando ipotizza una versione sci-fi di roba alla Dead C. Non male.
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