20 marzo 2008

12 AGOSTO 2007 + KALAMAZOO + RED ROOM= A GONZO REPORT

Un giorno il dio pillallo mi spedì a Kalamazoo. Disse che là c'era del gran rock'n'roll e che insomma non facessi tante storie. Il fatto è che a Kalamazoo c'ero già passato una volta, in treno, e l'unica cosa che ricordavo davvero era solo una gran massa di niente e della ruggine che sembrava essersi posata un po' ovunque. Quindi non è che proprio smaniassi dalla voglia di tornarci. Il dio pillaloo però è uno di poche parole: aveva accennato vagamente a una "red room" e poi si era volatilizzato sulle note di "This Is Folk Music" di Mudboy. Per quel che ne sapevo avrei potuto trovarci anche il nano di Twin Peaks, nella Red Room. Ma le vie del signore sono infinite e come per incanto ci troviamo a metà agosto lontani da spiagge, beach volley e culi. Siamo invece precisamente al 611 di Oak Street, classica via moribonda di un posto già morto da tempo e sede della prestigiosa "Alternative High School" su cui c'interrogheremo a lungo (che s'insegnerà? quanto durano le vacanze? perché siamo ormai troppo vecchi per iscriverci?). A darci il benvenuto davanti casa c'è un bel divano carbonizzato, file di case deserte, più in là negozi chiusi che per mangiare siamo dovuti andare a cercare l'unico posto aperto: una pizzeria. Da asporto. Sappiatelo: la pizza americana è il vero noise, una delle piaghe d'egitto che il dio pillaloo ha mandato chissà quando sul Michigan e che. a posteriori, spiega molte cose sulle musiche che si possono ascoltare da quelle parti. Quando Mosè ha attraversato il deserto col popolo eletto se dal cielo invece che manna fosse piovuta la pizza americana la bibbia sarebbe finita lì. Comunque ad aspettarci al nostro ritorno ci sono Miles Haney (Evenings/Tapeworm Tapes/Wigwam) che è anche il padrone di casa e Josh Bertram degli Our Brother the Native. Apprendiamo quindi che la Red Room non è un locale nè una vineria e purtroppo neanche uno stripclub. E' come tutte le altre cantine viste fino a quel momento, e cioè il classico posto dove puoi sgozzare qualcuno in tutta comodità e poi magari farti anche una birra fresca. Anzi c'è pure un tavolo apposito con su scritto "MURDER" come in quei cartelloni in cui si dice "voi siete qui..." il cui corollario in questo caso è "... e ora sono cazzi vostri". Ridacchiamo ma intanto cominciamo a guardarci le spalle. Dispiace sopravvivere alla pizza americana per poi finire a fettine in una cantina. Al piano di sopra si scratcha su un disco degli AC/DC e fa bella vista di sé un posterone dei Misfits. Le stanze profumano intensamente di epatite c. Dando un'ulteriore occhiata in giro intuiamo anche perché la cantina si chiama "red room", ma l'effetto è amplificato dal momento che anche le lampadine che pendono dal soffitto sono rosse.

Quando gli Our Brother The Native cominciano a suonare cala ulteriormente il buio perché alla sinistra del "palco", sul solito lenzuolo, vengono proiettate immagini di vecchi 8mm, quello che sembra una specie di ritrovo familiare di chissà quanti anni fa, immagini sgranate che si sovrappongono alla suggestiva musica evocata dal duo, entrambi davanti alle loro macchine di cui intravedo solo display luminosi. Si staglia a malapena la silhouette di Josh che comincia a disegnare qualche pattern sfocato su cui scivola il classico gorgheggio ultraterreno alla Sigur Ros. Poco più in là, nel buio più profondo, arranca Bill Salas impegnato a dare spessore ritmico ai loop di voce e chitarra creati da Josh. Il pubblico - che è il solito misto di nerd, scenester, suicide girls e gente capitata lì per caso - sembra apprezzare, al di là del fatto che semo tutti amici e Josh giochi pure in casa essendo cresciuto qui. L'atmosfera continuamente sospesa rischia di annegare le intuizioni che pure ci sono e che si affacciano volentieri in mezzo a flussi e riverberi. L'esibizione in effetti ha mostrato entrambe le facce della medaglia: da un lato le potenzialità di un "suono" ancora prima che di una musica, e dall'altro il rischio di perdersi da un momento all'altro. Sarebbe utile a questo punto andarsi ad ascoltare il cd appena uscito per la Fat Cat, "Make Amends, For We Are Merely Vessels".

Ma intanto stasera abbiamo l'occasione di goderci una fetta di Brooklyn con ben tre gruppi emergenti della scena. Il buon Bill Salas infatti fa appena in tempo a ricomporsi che già tocca di nuovo a lui che si sistema dietro le pelli e dietro una batteria elettronica. E' la volta infatti dei These Are Powers, gruppo di Pat Noecker, ex bassista dei Liars , e che potrebbe darci un po' di quel rock'n'roll per cui siamo venuti fin qui. A completare il trio c'è l'orgonica Anna Barie, chitarra, voce e campanaccio. Allora: non fanno South Haven dal loro primo ep e me ne faccio una ragione, ma in compenso c'è tutto quella che una cosa chiamata "ghost punk" può regalare. Tanto perché non vi ammazziate a cercare che cosa sia il ghost punk chiariamo subito che non esiste neanche come sottogenere, è una definizione inventata dal gruppo che vuol dire più o meno che fanno un post-punk scuretto, poca melodia e tanta voglia di costruire dei pezzi in grado di restare in piedi da soli. Ok, non credo di aver chiarito le idee. Giudicate voi. In ogni caso un po' spettrale è senz'altro Pat, l'ombroso bassista che probabilmente è stato cacciato dai Liars perché non rideva alle loro barzellette, in trance mistica quando canta e un tutt'uno con lo strumento che tira giù bordate non da poco, specie se poi lo fa sfrigolare contro le casse. Sintesi riuscita della loudness del noise-rock e delle strutture ritmiche del post-punk (aggiornate per di più grazie alle macchine di Salas) la musica dei These Are Powers al momento non dice niente di nuovo ma riesce a essere tremendamente catchy, anche quando sprofonda nel già sentito dei Sonic Youth in un giorno di pioggia. Non meraviglia quindi scoprire che è proprio verso una maggior apertura del suono che stanno lavorando, in una versione meno esagerata del disco-punk. C'è un nuovo ep in uscita per la Hoss che potrebbe dirci qualcosa di più in merito. Dal vivo è Anna la vera frontman, capelli, gambe e tutto quanto, con la voce che urla più del campanaccio, la chitarra minacciosa e adescante. I tre sono sistemati nel verso più lungo in una Red Room sempre meno red e dove il tasso alcolico comincia gradatamente a salire. E' il momento che, sulle note sospese e allucinanti di Makes Visible e per quell'empatia che solo il rock'n'roll, l'alcol e i soldi sanno creare, cominceresti ad abbrancare qualcuno fra il pubblico. Ma è una fortuna invece aver tenuto le mani a posto: quando si riaccendono le luci i ragazzi hanno i capelli lunghi e le ragazze i capelli corti.
Che le cose musicalmente continuino a essere serie ce lo dice Hisham (Akira) Bharoocha che si sistema dietro una doppia batteria, tradizionale ed elettronica, per dare vita alla sua creatura Soft Circle. Transfugo dai Black Dice dai tempi di "Beaches and Canyons" il nostro sembra ricominciare il discorso proprio da quell'album in versione anche più estatica. Progetto solista a tutti gli effetti Hisham alterna vocalizzi, prontamente rilanciati in loop, e una texture minimale e ripetitiva alla solita gragnuola di colpi sulle pelli. I pezzi da Ascend in poi vengono snocciolati e sbriciolati più o meno tutti quanti, e se da un lato sono perfettamente aderenti agli originali dall'altro suonano molto più vivi e dinamici. Il misticismo dell'insieme viene spazzato via dalla batteria che a momenti cammina da sola, tanto che comincio seriamente a preoccuparmi quando il solito Bill - che è proprio davanti a me - si tappa le orecchie. A conti fatti è il musicista più noto e con più esperienza e devo dire che si sente. Resta da vedere che combinerà d'ora in poi ma restiamo fiduciosi. Il pubblico va e viene, i solito quattro gatti, qualcuno in più forse, del nano di Twin Peaks ancora nessuna traccia ma so che prima o poi si farà vedere, magari al prossimo concerto, camicia rossa e tutto quanto.

E rosso-arancione è la copertina dell'ep degli High Places che arraffo subito dopo il concerto per pochi dollari per saperne di più su questo duo che solo ora comincia a far parlare di sè. Coppietta tanto innamorata quanto affiatata quella di Mary Pearson e Rob Barber che fra sguardi languidi, campionamenti, percussioni metalliche e melodie che si arrampicano su dei stranianti ritornelli pop fanno la loro sporca parte. Anche in questo caso dal vivo le canzoni suonano molto meglio che sull'ep dove sembra tutto più scolorito. La voce di Mary è innocente e sognante ma qui suona molto più "vera" e storta, e anche Rob si da un gran da fare con macchine e percussioni, fra improvvisi richiami new-wave e alla psichedelia del giro Animal Collective. L'effetto comunque è molto meno arty di quanto sembri, anzi è la cosa più vicina all'indie della serata che forse era giusto che si chiudesse con un po' più di leggerezza. Per dire: se su disco i glitch avrebbero eventualmente avuto un senso qui sarebbero stati schiacciati dal resto. Non male e da risentire anche se obiettivamente il meglio l'han fatto vedere These Are Powers e Soft Circle. Fa quasi tenerezza alla fine la scena di tutti e quattro i gruppi dietro il banchetto che un po' imbarazzati aspettano che qualcuno li ripaghi di tanto sbattimento, prima di caricare di nuovo il furgone e ripartire per la prossima destinazione. Debosciati american guys che non siete altro... già siete entrati gratis non fatevi pregare e compratevi almeno qualche cd. "Chi ha il pane non ha i denti" dicevano i nostri vecchi. Ma mi consola il fatto che tuttora molti di loro debbano fare i conti con l'epatite c.

(la prima e l'ultima foto - le più belle insomma - sono di carlo cravero)

19 marzo 2008

Natural Snow Buildings - "Laurie Bird" (Students Of Decay, 2008)

La (non) scena weird è qualcosa di sotterraneo quasi per definizione. Nonostante l’information overload dell’internet era, di segreti nascosti, promesse non mantenute, culti clandestini se ne trovano a vagonate, basta cercarli. Anzi, tra qualche anno, quando il naturale processo di storicizzazione illuminerà, presumibilmente, di una luce nuova quest’indefinibile periodo, non è improbabile (anzi è sicuro) s’incorra nelle “ire moralizzatrici” del consueto saputello revisionista, che senza tener conto del contesto, pontificherà su ciò che non è stato debitamente tenuto in considerazione. Ma un po’ di sospensione dal giudizio? O se volete di sano relativismo? Eh si, costoro ne sono solitamente sprovvisti.

Vabbè, polemiche a parte, veniamo al core del discorso: Natural Snow Buildings.
Allora, a scanso di possibili future mistificazioni è bene parlare (e parlare bene) dei Natural Snow Buildings, misterioso duo francese che è stato capace di forgiare, nell’arco di una manciata di dischi, tra le musiche più stupefacenti degli ultimi tempi.
Si chiamano Mehdi Ameziane and Solange Gularte, e sono fautori di free folk psichedelico e sognante - ma anche oscuro e tribale - di altissima classe. Non nego siano tra i miei ascolti obbligati in questo periodo. Si perchè questa musica è una spirale psichedelica praticamente senza via d’uscita, talmente maestosa che t’irretisce all’istante, anzi quasi ti costringe all’ascolto ripetuto.
In verità, pur mantenendo inalterate queste caratteristiche di fondo, i tre dischi giunti finora al mio orecchio sono abbastanza diversi tra loro. “Ghost Folks” del 2003 era un esordio - ok, pare ci siano un paio di cassettine addirittura precedenti, ma sono realmente introvabili - acerbo ma già tremendamente affascinante, a metà strada tra certo post rock di fine anni ’90 e la prima ondata new weird. Ecco, “Ghost Folks” mi ricorda molto i Mirza Steven Smith e Glenn Donaldson, personaggi fondamentali, questi, per la “costruzione” dell’estetica new weird con il collettivo/etichetta Jewelled Antler. “The Dance Of The Moon And The Sun” del 2006 è un capolavoro. Si, avete ragione il termine in questione oltre ad essere abusato, ha subito svariate derive di senso ultimamente, però non saprei come altrimenti definire questo maestoso doppio album di free folk visionario e fuori dal mondo. Immaginate un impasto di Popol Vuh, Pearls Before Swine, Malicorne, Comus, Ariel Kalma, Emitidi, Witthuser & Westrupp, Deuter, new age malata e non so cos’altro, in un suono un estatico e oppressivo al contempo, pregno di una spiritualità pagana degna dei migliori sacerdoti dell’occulto.

Quindi questo “Laurie Bird” che sposta il limite ancor di più, se possibile. Iniziamo con dire che l’album è dedicato a Laurie Bird, meteora del firmamento cinematografico americano. Interprete di una manciata di film e poco altro, la Bird si suicidò appena venticinquenne nell’appartamento newyorkese del boyfriend Art Garfunkel, il quale ebbe poi a dedicarle il buon “Scissors Cut”.
Dicevamo di un album ancora diverso; Natural Snow Buildings, infatti, qui mollano definitivamente gli ormeggi e si gettano a capofitto nella Kosmische Musik più estatica (e anche radioattiva) che possiate ascoltare di questi tempi, tra gli Ash Ra Tempel di “Join Inn”, il Sergious Golowin “Lord Krishna Von Goloka’ e i White Rainbow di “Prism Of The Eternal Now”
Musica che però va oltre lo sballo freakedelico e anche oltre la semplice trance estatica. Prendete la prima traccia, “Song For Laurie Bird”; insomma sono quarantasei minuti di fascioni che si susseguono e si avviluppano, a formare una cappa dronica di rumori morfinici e traslucidi. E’ quasi un suono trasparente, che invade l’etere, e che se ne impossessa senza colpo ferire. Sembra riesca a saturare lo spazio d’ascolto, inghiottendo come un buco nero, qualsiasi altro significante sonoro alberghi nei paraggi.
Suoni dal quarto, quinto, sesto mondo o non so cosa nella successiva “Cockmotherfighting” colma d’un tribalismo che sconquassa e che ricorda in qualche modo il folk campagnolo, ma fortemente contaminato (di diossina), dei Big Blood. Per chiudere in gloria con il bellissimo salmodiare proto dhrupad di “Orisha’s Laments”,

E non è finita per il 2008. Pare infatti sia già in rampa di lancia un’ulteriore uscita dal titolo “Slayer Of The King Of Hell”, oltre alla ristampa delle vecchie cose. Il tutto a cura di Digitalis Industries e Students Of Decay.
Ecco, giusto per insaporire ancor di più la portata, sappiate che i due sono titolari di un paio di progetti in solo di tutto rispetto: TwinSisterMoon (Mehdi Ameziane ) e Isengrind (Solange Gularte). Be’, anche qui se ne potrebbe parlare all’infinito, e non è detto che non lo si faccia, voi intanto iniziate a preparare le valige e a salutare gli amici, che con Natural Snow Buildings si parte per un viaggio probabilmente senza ritorno.

17 marzo 2008

Zines: Nazi Knife magazine # 4 / Kaugummi Magazine # 3

Per una volta, permettetemi di evadere dallo scalcinato recinto rumoroso-musicale che anima queste pagine, per parlarvi un po’ di minuscole fanzine autoprodotte e di… ma sì, di arte, perché no. È d’altronde un’evasione per modo di dire: le due pubblicazioni che seguono, sono a tutti gli effetti parte di quella scena che, più o meno, piace ricondurre alla voce noise, per quanto generica (e generalista) questa appaia ora. È un fatto però, che la comunità out internazionale – sia essa noise in senso stretto, o finanche weird, freak, e quello che vi pare – si sia dotata negli ultimi anni non solo di un codice, ma anche di un’estetica ben precisa. Un vero e proprio lavoro sull’immagine che passa solo tangenzialmente per le copertine dei dischi, portatore di un linguaggio (sia visivo che “tattile”) a sé che dice di tutta un’apologia del brutto, dello sgraziato, dell’amatoriale, e che in ultima analisi informa quasi per forza l’artigianato cassettaro anni 2000. Gli antenati sono noti: in USA la galassia Fort Thunder fu la prima a ipotizzare un universo di suoni e segni che passava tanto per la musica quanto per i poster, per i fumetti, per le installazioni trash/sci-fi. Prima ancora, in Europa e per la precisione in Francia, ci aveva pensato Le Dernier Cri a rilanciare l’osceno verbo dell’art brut. Ed è tuttora la Francia (Parigi senz’altro, ma anche Marsiglia, Bordeaux, Rennes…) il luogo ove quell’estetica ha saputo infiltrarsi con maggior ostinazione tra le maglie di un underground pronto a compiere il balzo “in superficie”.

Che ci sia una tendenza in atto, è evidente. Curioso è semmai che tale tendenza non abbia ancora un nome, e questo rimane un cruccio per chi, vuoi per deformazione professionale, vuoi per istinto alla catalogazione, necessita, prima ancora che del fenomeno, di un’etichetta spendibile buona a circoscriverlo. I tentativi non sono mancati: il concetto di art brut, come detto, è un primo indizio; ma è chiaro che solo una minima parte degli outsider artists attuali può essere ricondotta a un fenomeno già storicizzato e dai caratteri comunque ben precisi. Si è parlato di “neopsichedelici”, di “neoluddisti”: definizioni per loro natura improprie e sottilmente caricaturali, aleatorie anzichenò. Recentemente ho sentito parlare di stoner doodle, una specie di new pop infantile che descriverebbe bene molti dei materiali in questione: disegni per bambini, architetture optical, geometrie sbilenche alla Mark Beyer, schizzi e sputazzi a pennarello, ricordi lisergici, veleni industriali, copy art di serie B, pop alla diossina, sono tutti ingredienti plausibili e anzi espliciti quando si ha a che fare con gli artisti/illustratori che ci interessano. Che sono tanti, e sparsi un po’ ovunque: andando alla rinfusa, oltre alla Francia, vale la pena ricordare il Belgio di gente come Dennys Tyfus e Bart De Paepe (guardacaso rispettivamente boss di etichette come la storica Ultra Eczema e la più piccola Sloow Tapes), la Finlandia di una rivista come Glomp (con dentro tutti gli agitatori del finnish freak folk, per capirci), la Danimarca di Smittekilde (tanto fanzine quanto editore sia cartaceo che vinilico) e diverse altre realtà sparse dalla Spagna alla Germania, passando per l’Inghilterra.

In Italia la situazione è ancora in divenire: i tentativi ci sono, ma manca soprattutto il contatto tra brutture visive e infamie musicali. Qualcosa si muove nel Nord Est di gente come Canedicoda (sua la nuovissima ‘zine Faronte) e giro 8mm recs, oppure Kabu e da lì Dokuro Records. E ovviamente, anche per interessi personali, non posso non citare il buon Bomba e il party Spasticalia a Roma, anche perché lo stesso Bomba è quello che, a quanto pare, più di tutti ha stretto contatti con la comunità parigina facente capo a Eugene Kerozen, quasi un mostro sacro dell’universo graphzine. Tanto per dire, c’è lui dietro Nazi Knife, pubblicazione arrivata ora al quarto numero e vero e proprio gioiello di grafiche storte.

In realtà Nazi Knife nasce per mano di Jonas Delaborde, uno che, se frequentate la noise label Tanzprocesz, dovreste conoscere bene (è il curatore della serie a cassette Procession Tapes; sue, ovviamente, sono tutte le copertine). I precedenti numeri della rivista si erano già segnalati tra il meglio del meglio della scena, ma questo NK#4 va oltre: interamente a colori, curatissimo nei particolari, nei dettagli, nella scelta degli ospiti, Nazi Knife fa sfilare uno appresso all’altro gente che nemmeno sospettavo fosse in grado di tenere una matita in mano quali John Olson e Dominick Fernow/Prurient, assieme a vecchie stelle dell’era Fort Thunder come Mat Brinkman e Christopher Forgues/Kites, senza ovviamente contare eroi dell’art brut francese come l’anglopargino Andy Bolus/Evil Moisture, Hendrik Hegray, e gli stessi Delaborde e Kerozen. Il risultato è, semplicemente, eccezionale: una specie di quaderno dai colori esplosi che tenta di descrivere, attraverso mille segni e mille tratti diversi, un’unica, indigeribile saga horror-psichedelica, e poco importa se a svilupparne i capitoli sono autori tra loro spesso diversi assai: l’indole, quella sì, è unica, lo spirito lo stesso, l’epica irrimediabilmente rancida.

Ancora oltralpe ma più a ovest, per la precisione a Rennes, muovono invece le edizioni Kaugummi, di cui Kaugummi Magazine (qui al suo terzo numero) è una specie di vetrina-manifesto. Rispetto a Nazi Knife la pubblicazione è ugualmente curata ma tutta in bianco e nero, e ovviamente molti sono i nomi in comune, a cominciare dagli stessi Kerozen, Delaborde, Bolus & co (a Parigi è facile incontrarli dalle parti della Miroiterie). Sfogliarne le pagine è, di nuovo, un piacere ludico e perverso al tempo stesso: l’assenza di colore, a eccezione di un paio di pagine blu firmate Matt Lock, alimenta il senso di sporcizia che nei contributi di Brent Wadden, Sekitani, e del finlandese Jaakko Pallasvuo (rimediatevi la sua ‘zine per Sloow Tapes) raggiunge vette di delirante infantilismo. Meno coeso di Nazi Knife, ma altrettanto schizofrenico, Kaugummi Magazine deve far mostra di sé sui vostri scaffali, e già che ci siamo ricordiamo che il suo curatore, Bartolomé Sanson, è lo stesso che anima l’eccellente music-blog Dolphin Island, dedicato a – dice lui – “free & psych drones, noise, freak folk and all of this kind of stuff”.

8 marzo 2008

Nodolby – “Made of blazes/Maze of blades” (Dokuro, 2008) / Coco & Fiend Friend/Psychedelic Desert - "Space Orgasm Facility"(Turgid Animal, 2008)

Il primo 7” di Nodolby era una cosa cattivissima e sanguinolenta che ad ascoltarla in cuffia si commetteva un errore fatale (dal punto di vista uditivo-sanitario intendo). Il nuovo nastro, già sold-out alla fonte, fa meno male. Sul primo lato il suono alla sorgente – una chitarra – è chiaramente riconoscibile e sottoposto a minori forzature che in passato, così da assomigliare a una prova free noise vecchia scuola, giusto “abbellita” da un’elettronica sfrigolante di sottofondo: il risultato è un’improvvisazione ferina che immagino piacerebbe ai fan di Bruce Russell come a quelli di Matthew Bower, tanto per dare dei riferimenti. L’indole malvagia resta, ma alcune sfumature sanno di psichedelia abbrutita, e certo non è questa roba da suggerire good vibrations. L’altro lato poi, è ancora più velenoso: a farla da protagonista è un’onda analogico-sinusoidale irrancidita, di quelle che provocano il mal di mare pur stando seduti a terra, e anche qui, da qualche parte, sale uno spettro guitar-noise che però per l’occasione si limita a commentare il tema principe, senza intaccare l’essenza per così dire italo-industrial del brano. Bella la copertina della cassetta, come d’altronde lo era quella del 7”, e a questo punto a Nodolby chiedo: chi è il Merlo che le ha fatte?

Cambiamo etichetta ma restiamo in Italia, giusto quattrocento chilometri più a sud (ho controllato ed è esattamente questa la distanza che separa Belluno da Carrara; avrei detto di meno, accidenti…), per l’ultima novità in casa Turgid Animal – Italian Division. Forse sono un po’ prevenuto (e direi giustamente, conoscendo di persona il soggetto – uno che alle cinque di mattina pretende di mangiare non uno, ma due panini-con-salsiccia big size, unti e zeppi di merda da colesterolo istantaneo, presso il mefitico “Johnny Food” di piazzale Flaminio a Roma), ma non avrei mai immaginato che Tisbor sarebbe arrivato a pubblicare una cosa come questo nastro split tra C. & F.F. e Psychedelic Desert. Cominciamo da questi ultimi: il trio di Osaka è autore di un rock lisergico e sognante, dronico e improvvisato, e in definitiva pure parecchio fricchettone. La batteria è un motorik a intervelli irregolari che si limita a sussurrare una semplice quanto ossessiva trama ritmica, e sopra è tutto un florilegio di rintocchi, delay, riverberi, e guazzabugli space-guitar: funziona (soprattutto il finale dissonante e “a spirale”) ma appunto, mai avrei sospettato che un tipo quale Tisbor si sarebbe compromesso con tanta “musicalità”. Lo stupore rientra solo in parte quando si prende in esame l’altro lato, cioè quello a firma C. & F.F. (Coco & Fiend Friend), progetto che vede lo stesso Tisbor accanto a George Proctor/Mutant Ape, vale a dire la metà inglese di Turgid Animal. Space Kokoro Express parte con un rombo montante che lascia presagire claustrofobiche distese black-psycho, ma la quiete (?) è destinata a non durare: pochi minuti e il brano si imbufalisce in una sfuriata per power electronics dal tocco insolitamente “rock”, soprattutto quando entra in scena la voce, invasata e distorta che manco i miei paladini Wold, con pure vaghi accenti robotici, sul serio. Una breve pausa, ed ecco che si riparte con un’ipnosi di elettronica marcescente mandata in loop, il tutto corredato da un alito di synth cosmico che fa a botte con le ferraglie in lontananza. Ottimo davvero, e insolitamente narrativo, se mi concedete l’espressione. Non ho niente contro i giapponesi, a parte il fatto che sono giapponesi ovviamente, ma direi che qui la coppia anglo-italiana sbaraglia tutto e tutti.

1 marzo 2008

A Middle Sex - "A Muddled Hex" (Blackest Rainbow, 2007)

Gli A Middle Sex non sono “noisers” e non fanno “merda-music”, quindi presumo vadano ascritti alla voce “locuste”. Personalmente ho sempre provato un sano ribrezzo verso qualsiasi essere a più di quattro zampe (cavallette e simili poi, sono ai piani alti delle mie antipatie), ma nel caso specifico non posso che esultare: se queste sono le locuste che ci interessano, lunga vita a loro in attesa che lo sciame si manifesti.

Gli A Middle Sex, si diceva: sono in tre, sono inglesi (Manchester per la precisione) e hanno all’attivo un paio di cdr in tutto. “A Muddled Hex” è il più recente dei due, licenziato dall’ottima Blackest Rainbow di Sheffield, ed è un peccato che risalga (sebbene per un pelo) al 2007: fosse uscito qualche settimana dopo, avrei il primo titolo da Pillaloo-playlist di fine anno. Dicevo: niente noise e niente merda-music, sebbene sia fin troppo facile ricondurne le coordinate nei pressi di quel sentimento out che è l’humus su cui fonda tutto l’underground cassettaro dei giorni nostri. Somiglianze e affinità elettive a parte, resta però il fatto che il gruppo inglese sembra situarsi approssimativamente dalle parti di un out rock semi-improvvisato dalle ascendenze sommariamente wave, prediligendo le distanze brevi (i brani sono in media sui due/tre minuti) ed evitando accuratamente eccessi fuori misura. Il loro è un suono spigoloso ma subliminale, rigoroso pur nella sua asimmetria: percussioni, cianfrusaglie elettroniche e chitarre più o meno sconnesse sono gli ingredienti base, così che a uscirne è una specie di riattualizzazione di quel verbo che fu di casa This Heat/Pop Group. Alcuni esempi: Distorted Image è una scheggia free-rock in salsa noise, A Pang of Conscience è un funk slabbrato per macchina scrivente, We Drones un dub tribale che ricorda gli ultimissimi Sightings, la lunga A Muddled Version (dieci minuti) un singhiozzo a salti dagli echi industriali. Tutto è sempre a fuoco, concentrato, direi persino sobrio nonostante l’ovvia patina di sporcizia a ricoprire il tutto, e se un difetto c’è è che l’album dura troppo poco. O forse no: in fondo 32 minuti sono abbastanza, direi. E allora il fatto che questa mezz’ora sembri passare così in fretta, al punto che il lettore è sempre settato sulla funzione repeat, non può che voler dire una cosa: e cosa lo capite da voi, suvvia.

La prima edizione è tirata in sole 55 copie, ma non dovrebbe essere difficile rimediare il cdr presso i soliti distributori specializzati: in fondo gli A Middle Sex sono ancora virtualmente sconosciuti. La speranza è che tocchi riparlarne a breve.