24 febbraio 2008

Inca Ore – Grouper – Split CS (self released, 2007)


Com’è tipico della frenesia dell’era dei trend fulminanti che andiamo assaporando superficialmente, e non senza disinvolto mal di vivere ombelicale, ecco che una micro-tendenza dell’underground di 2-3 anni fa giace già dimenticata tra i pulviscoli e le macerie microproduttive su nastro.

Inca Ore, alias di Eva Saelens, e Grouper, alias di Liz Harris, erano le reginette della “moan wave”, termine coniato dall’ottimo Weasel Walter che sta ad indicare una musica fatta essenzialmente di lamenti vocali sovrapposti senza ritegno fino a formare una broda lasciva, oppiacea, ma sempre invereconda di psichedelico strazio, conturbante a tratti e mefitica altrimenti, una placenta di ammorbante frippertonic vocale, per lo più congiurato verso il basso, il mondezzaio delle produzioni targate Skaters & Co. Detto che secondo Walter anche gente quasi rispettabile (prendetelo con le molle) come Hospitals e Gang Gang Dance rientrerebbe nell’infausta categoria, per lo più sono la già citata premiata ditta Clark/Ferraro e i discepoli metallosi Robedoor a farla da padroni sul versante maschile del genere, mentre sul fronte clitorideo ecco le summenzionate reginette.

Delle due Inca Ore è la più spastica, irriducibilmente bohemienne e freak, tutto sommato trashosa per le infamie auricolari verso cui si spinge, mentre Grouper appare più poseur e snob, arroccata su una poetica da cameretta chiusa e buia, immersa in tendaggi vellutati e morbosità intima.

Diciamo subito che Inca Ore per qualche perversa ragione ci ha sempre intrigato. Certo, tra le altre cose è riuscita a dare alle stampe il peggior album 5RC di sempre, quell’indicibile “Birds in the Bushes” in compagnia di tal Lemon Bear, uno che è andato a lezione da Jandek senza capirci un cazzo, e questo dopo aver dato alle stampe un dignitoso lp di folk-moan-wave su marchio Jyrk. Poi è la solita trafila di cdr, collaborazioni (con Tom Carter) e split, vedi quello coi californiani Starving Weirdos e, appunto, questa cassettina insieme a Grouper. Qui Inca Ore, di nuovo in solo e senza lo sciagurato compagno di merende, torna a buoni livelli, per gli standard di cui ci occupiamo, specie nell’incipit di Churpa Champumado, sporca pulsazione psichedelica, legnosità perse nell’ombra, lampioni e pali della luce on the road all’imbrunire. Seguono le diverse specialità della casa, dalla nenia impalpabile e nuda calata brutalmente nel vuoto, al muggito alla Skaters che pavimenta tutto quanto fino ai sospiri affettati e alla nursery rhyme, per chiudere su arrugginiti bordoni di viola, o qualcosa del genere.

Meno eclettica è sicuramente Grouper che dopo il discreto successo dell’esordio importante “Way Their Crept” non è più riuscita ad andare oltre quella broda avviluppante di voci, sussurri e, probabilmente, lunghe note di basso dilatate oltremodo. Qui l’atmosfera si fa un po’ chiesastica, con tastierine giocattolo a sostituire gli organi, e anche più del solito ci si trova di fronte a una Hope Sandoval o Christina Carter (prendetela con parecchio sale) ridotte davvero ai minimi termini musicali e di fedeltà sonora. I pezzi sono praticamente tutti uguali e anche se la formula in definitiva ha un suo perché, la stucchevolezza ha superato l’angolo da un pezzo.

20 febbraio 2008

Endless Sea - "Hunter's Song" / Knunn - "Downhead Rabbit Tarots" (Second Sleep, 2007/2008)

Prime uscite in casa Second Sleep, l’erede della fu Long Long Chaney da Treviso. In realtà la più parte dei materiali è fuori già da novembre 2007, ma tra una cosa e l’altra sono riuscito a mettere le mani sul “batch” solo recentissimamente, in occasione di una calata di Matteo/Kam Hassah (che di Second Sleep è il factotum) qui a Roma. Andrebbero spese due parole sul motivo che ha portato il pot-addicted di cui sopra dalle parti della capitale: sostanzialmente, si trattava di un party presso l’Accademia Americana, in cui il nostro si esibiva assieme a Nico Vascellari. Fa un certo effetto assistere alla performance di due tipi che rantolano e si dimenano per terra, circondati da pedali ed effettacci vari, negli scintillanti ambienti di una villa sette/ottocentesca in posizione Gianicolo, con tanto di vista panoramica su Roma, stucchi, affreschi e che so io. Ma è inutile che sto a raccontarvi storie, vere attrazioni del party erano birra gratis, cibo gratis, e persino sigarette gratis (Lucky Strike, per la precisione): insomma, il paradiso! A fine serata ho visto anche Vascellari cimentarsi in un bellissimo ballo mongoloide-style al suono di non mi ricordo più quale classico electro periodo ’80 (a fine party c’erano i dj, ovviamente), in ogni caso, complimenti agli americani per i loro wurstel con crauti, la birra Hell (mai sentita prima), e le drag queen.

Tornando a noi: Endless Sea è il nuovo progetto dello stesso Matteo Second Sleep, e rispetto ai materiali firmati Kam Hassah posso dirvi che qui le cose si fanno parecchio più incazzose. Di fondo resta quell’attitudine nera, buia, disgraziata che sempre informa le uscite curate dal nostro, e a voler tagliare le cose con l’accetta possiamo dire che se Kam Hassah è la sua prova per droning cimiteriale, Endless Sea si situa approssimativamente presso lidi più prossimi a certa power electronics con accenti black noise. La registrazione è, inutile stare a ribadirlo, infame, e come spesso capita contribuisce in maniera decisiva al risultato finale: roba involuta, tutta pancia e intestini, urla (o almeno quelle che sembrano tali) che emergono a stento sotto un’eruzione di mondezze varie, per due lunghi brani che paiono l’ultimo Prurient seviziato da un ghoul. È divertente notare come, quasi per sbaglio, in mezzo a tanta empietà compaiano di tanto in tanto fantasmi di melodia (credo del tutto involontari) che fanno pensare a un nastro dei Beherit lasciato a squagliare sotto il sole. Dicevo sopra che le prime uscite della Second Sleep risalgono a novembre, ma questo “Hunter’s Song” è in effetti una novità: addirittura, sul sito dell’etichetta, ancora non è riportato tra i materiali in catalogo.

Alla infornata inaugurale appartiene invece “Downhead Rabbit Tarots” di Knunn, che altri non è se non Lexes da Napoli, pure lui titolare di un’altra etichetta prematuramente scomparsa, la Scarbox. Il nastro in questione è a tema magico-esoterico, o almeno così sembrerebbe visti i titoli e i riferimenti agli arcani dei tarocchi, ma – a parte tutto – la cosa importante è questa: Knunn, nonostante sia di Napoli, non deve aver mai visto la luce del sole. Questa almeno la mia teoria, suffragata per quel che mi riguarda dall’ascolto di un’ora asfissiante a base di synth ultradistorti, versi osceni, e ignominie antimusicali di tutti i tipi. Formule come “rabbia compressa”, “devasto trattenuto” eccetera hanno un che di ridicolo, concordo, ma ecco, le ho usate, e quindi capite da voi. Insomma: un gran casino, e anche una grande prova, soprattutto sul secondo lato: idealmente siamo molto vicini a quanto detto a proposito di Endless Sea, e visto che la carta del ghoul l’ho già giocata, qui mi tocca evocare il divino Tuchulcha e raccomandare il nome di Knunn allo Zatlath Aithas degli inferi etruschi. XURUVA UNUTH! HATRTHI!

12 febbraio 2008

Barbara – "Peger" (HCB, 2007)

HCB (Heart & Crossbone) e Topheth Prophet sono due etichette gemelle di nazionalità Israeliana -di Tel Aviv la prima, di Ra'anana la seconda- che raccolgono il meglio della scena alternativa locale.
HCB si occupa principalmente di metal e noise mentre Topheth Prophet traffica con materiali post industriali; nel catalogo di quest’ultima, infatti, ci trovate pure qualche nome piuttosto noto, come ad esempio quello di Albin Julius Martinek AKA Der Blutharsch (…).
In questa sede andiamo a parlare di una delle ultime uscite HCB, ovvero di “Peger” (“carcassa” in ebraico) dei Barbara.
Come nel caso dei Grave In The Sky, anch’essi su HCB, Barbara propongono una miscela piuttosto personale di grind, black e suoni “altri”, identificabili, questi ultimi, come derive ultra estreme di stilemi noise-free jazz. Vengono in mente a tal proposito formazioni della foggia di Trumans Water, Lightning Bolt, Flying Luttenbachers (quelli di “Gods Of Chaos” soprattutto) e finanche Naked City in quei frangenti dove la struttura tende a disfarsi, senza peraltro mai trasformarsi in caos puro. Ora, prima di descrivervi per sommi capi le caratteristiche salienti di “Peger”, vi pregherei di lasciar perdere le recensioni che si trovano in giro, soprattutto quelle scritte da true black metal fan incappucciati perennemente alla ricerca di suoni che perpetuino la tradizione. Si, quelle recensioni sono quasi tutte negative o al meglio fanno passare “Peger” come un’eresia (Striborg sa bene cosa significhi ciò), additandolo a mo’ di pericoloso rifiuto tossico.
Qui c’è poca tradizione e molta contaminazione invece, nella scia di formazioni che stanno cercando, per quanto possibile, di svecchiare un certo tipo di sintassi. D’altronde le teste che emergono dal mucchio sono le prime ad essere tagliate, e di questo Barbara sono perfettamente coscienti.
Allora, così come nel caso dei già citati Grave In The Sky, dei Mahakala o dei cinesi Hyponic, nel suono dei Barbara la componente trance/psichedelica è decisamente prominente, e va a costituire una cappa di fuliggine radioattiva invero parecchio disturbante. In quest’ottica “Peger” suona abbastanza lo-fi. Le parti di batteria, infatti, nonostante incalzino veloci e irregolari, appaiono in penombra rispetto al resto, dando l’impressione di essere elemento quasi di contorno piuttosto che struttura portante.
Ciò non si verifica in apertura, nella feroce “Schneii”, o nell’altrettanto bestiale “Pray To Black”, dove le pelli sono percosse in modo davvero inumano. “The Feedbacker”, “Akum”, “Shimaa”, “The Philosopher Under Pressare” invece, sono attraversate da colate di feedback che avviluppano nel flusso le asperità percussive, tramutandole in echi tribali rimbombanti in lontananza. Eppure la differenziazione del suono è proprio in questi tracciati ritmici sommessi e soffocati, basta seguirli con un po’ d’attenzione; quasi che necessitino di essere decriptati. Non è un caso che la press sheet parli di bass & drums.
Per ciò che concerne il prodotto, libretto scarno ma curato, testi sia in inglese che in ebraico, copertina suggestiva… insomma cha altro pretendere da un oggetto del genere?

4 febbraio 2008

Secret Abuse - "Young Pig Vol. 1: Walking For Days Alone" (Eager Mother, 2007) / "Young Pig Vol. 2: Master I Have Desire" (Ides, 2007)

Capita poi che, fra cassette e cassettacce, sbuchi qualche chicca. Certo, nessuno ci ridarà indietro il tempo perso ad ascoltare le cassettacce, ma i sogni non sempre son desideri. A volte, anzi, sono perversioni. E di perversioni se ne intende senz'altro Jeff Witscher che prima ci ha assordato più e più volte con i Roman Torment e Impregnable, trovando nel frattempo il tempo per pubblicare cassette per la sua Callow God, e poi l'anno scorso è uscito allo scoperto con Secret Abuse. Magari con questo nuovo progetto non avrà visto la luce in fondo al tunnel, ma sicuramente ha conquistato una nuova prospettiva per la propria musica, oltre che una varietà che in passato difficilmente avremmo preventivato. Le due cassette in questione, oltre a essere al solito limitatissime, ci presentano quindi uno Witscher inedito, soprattutto nel primo dei due volumi di "Young Pig", alle prese con un'ambient noise di grande effetto.
Il primo lato di "Walking For Days Alone" è abbastanza paradigmatico nella sua ambilvalenza: la melodia disturbata e sommersa dai marosi noise di Anytime fa da contraltare alla melodia reiterata - quasi narrativa - che si sviluppa invece tanto fluidamente nella precedente One More River To Cross. Leggermente più drone-oriented il secondo lato che, con Picture of Redwood insieme a Werness/Bloody Toe, s'impone come episodio più fruibile di tutta la discografia di Witscher, anche se l'impressione è che a illuminare il tutto sia un sole comunque autunnale.

Il primo pezzo che apre "Master I Have Desire" (Ides) ci riporta subito a terra con l'imboscata harsh di Terrible Release Day le cui frequenze ossessive c'inseguono fin dentro Naette dove, sul finire, da ronzanti si fanno davvero impossibili. Quando ormai credi di esserti fottuto per sempre i timpani, giunte al loro culmine le frequenze sfociano in modo quasi trionfale in una tessitura ambient noise di rara efficacia, nonostante venga poi strappata brutalmente alla fine del primo lato. Girata la cassetta si capisce in fretta che se finora Witscher c'aveva raccontato una storia (d'amore?) questa storia non andrà a finire tanto bene. (Sulla copertina in bianco e nero c'è una ragazza nuda, di spalle, in un prato dall'erba alta, con le braccia allargate; forse corre o forse è in contemplazione. Di cosa, però, non si sa). Brusii calustrofobici e flussi alterati si dipanano senza soluzione di continuità da Pilgrim Girl a Julian Approaching e lasciano ben poco spazio alla fantasia. Del breve pezzo finale ci resta solo una melodia appena tratteggiata, un ricordo lontano di quelle ascoltate nel precedente volume, e un titolo che chiude degnamente il tutto: Like Samson, I'm In The Dark And Continue To Ride The Bus.