Com’è tipico della frenesia dell’era dei trend fulminanti che andiamo assaporando superficialmente, e non senza disinvolto mal di vivere ombelicale, ecco che una micro-tendenza dell’underground di 2-3 anni fa giace già dimenticata tra i pulviscoli e le macerie microproduttive su nastro.
Inca Ore, alias di Eva Saelens, e Grouper, alias di Liz Harris, erano le reginette della “moan wave”, termine coniato dall’ottimo Weasel Walter che sta ad indicare una musica fatta essenzialmente di lamenti vocali sovrapposti senza ritegno fino a formare una broda lasciva, oppiacea, ma sempre invereconda di psichedelico strazio, conturbante a tratti e mefitica altrimenti, una placenta di ammorbante frippertonic vocale, per lo più congiurato verso il basso, il mondezzaio delle produzioni targate Skaters & Co. Detto che secondo Walter anche gente quasi rispettabile (prendetelo con le molle) come Hospitals e Gang Gang Dance rientrerebbe nell’infausta categoria, per lo più sono la già citata premiata ditta Clark/Ferraro e i discepoli metallosi Robedoor a farla da padroni sul versante maschile del genere, mentre sul fronte clitorideo ecco le summenzionate reginette.
Delle due Inca Ore è la più spastica, irriducibilmente bohemienne e freak, tutto sommato trashosa per le infamie auricolari verso cui si spinge, mentre Grouper appare più poseur e snob, arroccata su una poetica da cameretta chiusa e buia, immersa in tendaggi vellutati e morbosità intima.
Diciamo subito che Inca Ore per qualche perversa ragione ci ha sempre intrigato. Certo, tra le altre cose è riuscita a dare alle stampe il peggior album 5RC di sempre, quell’indicibile “Birds in the Bushes” in compagnia di tal Lemon Bear, uno che è andato a lezione da Jandek senza capirci un cazzo, e questo dopo aver dato alle stampe un dignitoso lp di folk-moan-wave su marchio Jyrk. Poi è la solita trafila di cdr, collaborazioni (con Tom Carter) e split, vedi quello coi californiani Starving Weirdos e, appunto, questa cassettina insieme a Grouper. Qui Inca Ore, di nuovo in solo e senza lo sciagurato compagno di merende, torna a buoni livelli, per gli standard di cui ci occupiamo, specie nell’incipit di Churpa Champumado, sporca pulsazione psichedelica, legnosità perse nell’ombra, lampioni e pali della luce on the road all’imbrunire. Seguono le diverse specialità della casa, dalla nenia impalpabile e nuda calata brutalmente nel vuoto, al muggito alla Skaters che pavimenta tutto quanto fino ai sospiri affettati e alla nursery rhyme, per chiudere su arrugginiti bordoni di viola, o qualcosa del genere.
Meno eclettica è sicuramente Grouper che dopo il discreto successo dell’esordio importante “Way Their Crept” non è più riuscita ad andare oltre quella broda avviluppante di voci, sussurri e, probabilmente, lunghe note di basso dilatate oltremodo. Qui l’atmosfera si fa un po’ chiesastica, con tastierine giocattolo a sostituire gli organi, e anche più del solito ci si trova di fronte a una Hope Sandoval o Christina Carter (prendetela con parecchio sale) ridotte davvero ai minimi termini musicali e di fedeltà sonora. I pezzi sono praticamente tutti uguali e anche se la formula in definitiva ha un suo perché, la stucchevolezza ha superato l’angolo da un pezzo.