26 aprile 2008

VVAA – Bound To Skin – 5xCD (Skulls Of Heaven, 2007)


A volerlo fortemente c’è sempre il modo di stare dalla parte sbagliata. Anche quando già si parte male. Però se lo si vuole la via per andare anche solo un passo “un po’ più in là”, un po’ oltre la soglia dei buoni, o magari dei già abbastanza cattivi, propositi la si trova.

Il purgatorio della mega-compilazioni di genere è già particolarmente vasto, specie se ci focalizziamo sul macroambito delle musiche freak and weird, dal rumorismo alla psichedelia, dalla drone-music al folk improvvisato. Non sono però molte, in questo ambito, le raccolte che possano dirsi definitive, tanto per cominciare quanto per chiudere e riassumere un percorso d’ascolto privato o un sentire comune di un’epoca. Ritrovarsi di fronte a una di esse è quindi sempre un evento, che necessita anche immediate codificazioni e assunzioni di campo.

Se l’ormai mitizzata “Harmony of the Spheres” rilasciata da Drunken Fish una decina d’anni fa è unanimemente considerata la vera precorritrice delle raccoltone a tema di questi anni, le più rappresentative in ambito sommariamente drone-folk succedutesi nel tempo sono senz’altro state lo splendido triplo vinile “Fron the fruits you shall know the roots” su Time-Lag e il boxettone sestuplo “Invisibile Pyramid” su Last Visibile Dog, per nomi, provenienze geografiche e numeri la raccolta più completa di sempre.

“Bound To Skin” arriva tardi, nel 2007, anno di avvisaglie di riflusso, e per di più esce su Skulls Of Heaven, nuova etichetta-mailorder di Clay Ruby, da Madison County, Tennesse, il leader dei Davenport, fino a un paio d’anni fa band tra le più simboliche della fiorente New Weird America community e poi sparita nel nulla (con Ruby che si barcamena tra Zodiacs e Zodiac Mountain sul versante psych, gruppi ad oggi più morti che vivi, e coi Burial Hex su un inedito versante ambient-industriale). Il quintuplo cd, commissionato nei mesi ottimisti del 2005 a cinque gruppi per disco, è quindi accompagnato da un vago sentore di morte, e per di più contiene una musica sommariamente poco estatica e molto carica di dubbi, sfregi, ruggine e arcane premonizioni, per un senso di incompiutezza delle singole tracce che non celebra un bel niente (come poteva accadere nelle raccolte summenzionate), ma sorveglia con inquietudine un baratro che minaccia di spalancarsi sul vuoto.

Il suono complessivo che emerge da questo nuovo mastodonte è dunque rigorosamente rinnegato e aspro, per nulla addomesticato e a suo modo rabbioso, senz’altro dalla parte sbagliata.

Il disco uno si apre con Tomutonttu, famigerato progetto solista del finnico Jan Anderzen (Kamialliset Ystavat e mille altre cose), che parte molto bene con un ruggito sommesso, presto cesellato da ansimi campionati e pizzichi d’acustica che vanno a sfrigolare in un microdelirio di elettronica analogica fino al tribalismo marziale ebete che si trascina per alcuni minuti e alla chiosa su vagiti rantolanti. Da qui non si più che scendere e ci pensano i professionisti delle immersioni dei fondali catramosi della nuova angoscia moaning, gli Skaters che per l’occasione mettono mano alla loro paccottiglia percussiva più del solito, regalandoci anche un vero colpo di teatro ai 4 minuti: tacciono le voci e partono larghi arpeggi d’acustica fino all’emergere di una voce che pare femminile (ma è probabile che sia un filtro) ad intonare una cantilena che sa di India etnica. Novità assoluta per il duo, ma siamo dalle parti del già sentito (altrove) e dunque forse non è la strada giusta da seguire per il futuro, ammesso che gliene freghi qualcosa. A seguire il veterano inglese Phil Todd col sempiterno progetto Ashtray Navigations. Mai avuto grande passione per l’uomo e posso confermare: nella sostanza fuzz fumoso, colpi di basso che aggiustano il tiro, rado disordine percussivo nello sfondo, finchè non partono tastierine giocattolo e feedback lontani e si va a parare in cavernosità elettroniche ambientali dalla grana grossa, ma costeggiate da piccolissimi dettagli. L’influenza dei Nurse With Wound è sempre avvertibile. Il compilatore si fa vivo a questo punto con gli Zodiac Mountain ed è nebbiosità psichedelica da perdere l’orientamento, non lontana da certe cose dei Burial Hex, guarda caso. Dopo un po’ arriva la chitarra elettrica piena di riverbero e malinconia e si chiude così, in una perdizione che di gioioso ha rimasto ben poco, immaginatela come una versione molto meno furibonda delle ultime cose di Valet. Chiudono i redivivi (ma qui siamo nel 2005) Wooden Wand and the Vanishing Voice con lungo brano fatto di accenni minimi e scorticature elettroacustiche su un fondale impalpabile di elettronica junk (certamente opera di Lucas “Nonhorse” Crane) che cresce progressivamente fino a inghiottire anche quei vaghi sentori di blues che solo antenne molto fini possono captare fin dentro all’angoscioso finale.

Il secondo disco parte in quarta coi Pengo, formidabile e sempre troppo poco noto quartetto (oggi trio) di Rochester, nel nord-est americano. Moats è convulsione rattrappita, ferocia trattenuta che monta sopra un elementare pattern di tastierina elettronica. Nella musica dei Pengo è racchiusa una rabbia tremenda, fatta sfogare a piccoli tratti, secondo una prassi che richiama le maree rumoriste, tutte strappi e calcinacci, dei Dead C. A differenza dei neozelandesi però, qui non è tanto l’afflato metafisico a farla da padrone, ma un’angst terrena e bruciante, i cui contorni psichedelici altro non sono che tremolanti palafitte destinate a cedere. Una band dimenticata, a suo tempo in prima linea nella scuderia 23 Productions (la vecchia etichetta di Clay Ruby) sono i Maths Balance Volumes. Eredi naturali dei Godz, a questo giro i due mettono da parte le scordature acustiche e riversano su disco una sciagurata ipotesi di world-music tutta fiati disgraziati e petulanti, tastiere ondivaghe e spazzatura elettronica. A quattro minuti parte una scalcinatissima march-band che risolleva non poco le sorti dell’ascoltatore. La palla passa poi ai Brothers Of The Occult Sisterhood, band capofila dell’emergente movimento promitivista australiano (chiedete ai tipi della Siltbreeze). Di norma non ci perdo la testa, ma il gruppo ha la bella pensata di limitare l’istinto troglodita e il volume per rabberciare un blues-rock narcotico e drogato non poco, parecchio in linea con un’estetica rock classica, non fosse per l’esiguità dei mezzi e la pochezza strumentale. E’ poi la volta di White Dog, primo autentico sconosciuto del lotto. Il brano è particolarmente debitore dello stato d’animo di chi ascolta: se va male è un’inutile esposizione di feedback appena udibili con qualche gorgoglio elettronico e sparse note di basso e chitarra ogni qualche minuto. Diversamente, se ascoltato nella migliore predisposizione, parla la stessa lingua delle più belle ed epiche code chitarristiche dei Sonic Youth di metà anni ’80. Prendere o lasciare. C’è ancora il tempo, poi, per Armpit, la creatura di Clayton Noone, eterna promessa inesplosa della scuola neozelandese. Si parte bene con un drone oscillante su cui si innestano sbilenchi colpi di chitarra e tastiera, finchè un farraginoso feedback granuloso non inghiotte tutto contorcendosi stancamente fino alla fine, in uno spegnimento rimandato più volte (il brano di chiama “Grunge King” se volete farvi l’idea del tipo di suono).

Aprono le danze del terzo disco Fursaxa & Zaimph, ossia Tara Burke e Marcia Bassett (Double Leopard, Hototogisu, GHQ) che una decina d’anni fa suonavano insieme a nome Un (un buon lp su Siltbreeze per loro). Il brano unisce perfettamente le abilità delle due: vocalizzi allungatissimi a effetto doppler percorsi da epiche traiettorie di chitarra slegata e siderale con una tendenza al lento crescendo dei decibel. Dopo di loro è la volta di Axolotl con un brano tra i più statici del lotto, una tappezzeria ambient che nel dna porta del stimmate di un noise gorgogliante ridotto a ferrea stabilità dronica, sulla linea dell’acclamato “Telesma”, disco tutto sommato di svolta per il buon Karl Bauer. A seguire c’è Astral Social Club, ossia l’altro veterano inglese Neil Campbell. Il brano ha una sua originalità: sirene vocali in un andirivieni narcolettico con timide sovrapposizioni, sotto la cui coltre si agitano piccoli rumori molesti, come petardi scoppiettanti. Ai 5 minuti parte una bordata di liquido power-noise, decisamente gratuita, che conduce a un finale di sordi drones in libera uscita. I lanciati Excepter fanno poi capire di essere ormai ben poco interessati alla comunanza di intenti col resto della comunità freak. Il loro brano è chiaramente uno scarto svogliato, un pezzo su cui si potrebbe anche lavorare, ma lasciato a se stesso: in pratica la ripetizione ad libitum di un semplicissimo pattern di tastierina e basso, con qualche intromissione di oscillatori e colpetti legnosi nel finale. Ok l’alienazione e il senso di straniamento, ma si poteva anche non partecipare, eh. Chiude lo sconosciuto PW Best con un’inquietante folata di organi (il suono è più freddo e ispido ma in qualche modo può ricordare, per chi la conosce, la ost del film “Carnival Of Souls”, uscita su Birdman una decina d’anni fa) che si concretizza poi in minimal music sinfonica abbastanza vicina a quella di Jon Gibson, solo con un dna più incline allo sfregio, ma il taglio è davvero quasi accademico.

Si riparte dalla Finlandia nel quarto disco, introdotto da Uton che ci regala la consueta immersione nei foschi scenari delle misteriose foreste nordiche. Brano senza particolari scossoni, ma le variazioni comunque ci sono, assai atmosferico e sicuramente riuscito. Si lega piuttosto bene l’oleoso e oscillante drone tastieristico dei Watersports, che in pratica sono i Blues Control qualche anno prima. Il suono è piuttosto pulito e ben definito e il lavoro è comunque efficace e svolto con una certa attenzione. A seguire il chitarrista Anla Courtis, collaboratore pressoché di chiunque in ambito impro-weird-noise, alle prese con un brano per strumento a corda (si direbbe più un koto che una chitarra) vicino ad estetiche orientali, disarticolato e ammaliante, percorso da mille fremiti tenuti sempre sotto controllo. Altri perfetti ignoti sono i Pan To Scratch, che propongono un brano di quasi inudibile concrete musique, più vicino a Bernard Gunther che non alla scuola del weird-noise odierno (ma val la pena ricordare come il suono dei Davenport, la band del compilatore Clay Ruby, nel suo ostinato riduzionismo lo-fi desse sempre l’impressione di flirtare con la musica concreta). I soliti grilli sullo sfondo, qualche colpo, rumori casalinghi, stridori che assumono vesti da drone accennato, qualche reminiscenza vaga e grossolana di certe cose giovanili di Dean Roberts e Taku Sugimoto. Un suo fascino ce l’ha. Paradossalmente annoia più in fretta il gamelan senza troppe idee dei Taikuri Tali, titolari anche di un cd nel 2005. Qui le carenze compositive sono squalificanti, peccato perché l’idea delle percussioni metalliche nella compilation non l’aveva avuta nessuno e poi verso la fine, con gli oscillatori e il canto rituale, le cose un po’ si rimediano.

Il pezzo più noise dell’intera raccolta, chitarra cartavetrata, batteria marziale e sentori Melvins / Anphetamine Reptile arrivano all’inizio dell’ultimo disco, con Wolfskull, pseudonimo sotto il quale si cela di nuovo Clayton Noone / Armpit nel suo progetto più incline al metal. Ancora una volta si parte bene, l’attitudine depressa e vagamente shoegazer che pervade il brano ne alleggerisce il pachidermico impatto, ma poi il limite è in una scarsa capacità di gestire le idee nel seguito. Gli United Bible Studies distillano sottili singulti di tastiera e voci femminili sull’orlo del feedback per poi accrescere, pregevolmente, il tasso di rumorismo in un brano che complessivamente ricorda da vicino una versione lievemente più sofisticata (ammesso che l’aggettivo abbia senso nell’ambito) della proposta musicale delle Pocahaunted. Seguono i sorprendenti Kyrgyz, scompiglio sghembo di basso-chitarra-batteria con vaghe suggestioni orientaleggianti da quattro soldi, che mantiene un controllo sorprendente (vi immaginare un tentativo molto riuscito di ricondurre all’ordine le pulsioni centripete dei Fat Worm Of Error?) con un crescendo di tensione suggerito dal basso e parecchie planate distensive da cui si riparte con la baruffa. Si scopre poi che si tratta di un supertrio: Tom Carter, Lore Chasse e Robert Horton, con all’attivo un interessante (ma a naso non altrettanto bello) cd su Digitalis. Veri sconosciuti sono poi i Navy Black, anche qui sul filo dell’imperscrutabile. In pratica sgarbate pennellate di granuloso suono microfonico (immagino partano da un microfono a contatto) che si esercita in un bambinesco action painting sonoro sul panno bianco del silenzio. Infine arriva l’elettronica analogica dei Clixcx, scarabocchi da meccano sonico con qualche sbilenca apertura spacey, che chiudono nel più interlocutorio dei modi una raccolta sfuggente e per questo davvero preziosa.

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