8 gennaio 2008

Heather Leigh Murray – Devil If You Can Hear Me (Not Not Fun, 2007)

Heather Leigh Murray ha il phisique du role di una perfetta Olivia. E’ magrissima, altissima e se non portasse quelle lenti così spesse potrebbe anche sembrare più carina e meno nerd (osservatela pure sulla copertina del suo precedente Give The Ashes To The Indians). Heather Leigh arriva dal Texas. Un Texas che è prima di tutto uno “stato mentale” per dirla con Lansdale. Uno stato (mentale) senza contrade o quartieri che annulla i confini e rovescia tutto dentro. Lei è cresciuta nella stessa Houston dei Charalambides, ma dà l’impressione di girare sonnambula per le stanze disadorne della propria casa. Al massimo può concedersi una boccata d’aria per le stradine intorno. Magari un giorno si è pure imbattuta in uno, alto e magro come lei. Uno che faceva foto alle cose più disparate. Uno come Jandek di cui Heather Leigh ha mandato a memoria tutta la discografia. Oppure due come Tom e Christina Carter con cui pure si è beneficiata di collaborare. Con Christina ha persino condiviso il progetto Scorses. In seguito si fa vedere sempre con la gente giusta. Con Thurston Moore, Paul Flaherty, Chris Corsano e Matt Heyner crea i Dream/Aktion Unit. Dopo di che la avvistiamo nella mafietta weird made in Glasgow di Volcanic Tongue. Con David Keenan e Alex Neilson erige dal nulla i Taurpis Tula e collabora attivamente alle molteplici questioni dell’ormai celebre mailorder. Un po’ di dubbi quindi sono del tutto leciti nel vedersi l’ultimo disco della Nostra immediatamente sulla “punta della lingua”. Devil If You Can Hear Me viene licenziato da Not Not Fun e in copertina ha una foto di lei con il volto completamente oscurato dai raggi di un sole che spunta malizioso da una collinetta. Sembra quasi una citazione di Vision Creation Newsun dei Boredoms. La musica è un lunghissimo stream of conciousness con un unico torrente sonoro infettato alla fonte di una pedal steel guitar quanto mai sul solco di Susan Alcorn, un’altra texana sgraziata, sua mentore e cattiva maestra. Il lato A è completamente coperto da Porch Fighter, un blues acidulo alla maniera del Jandek elettrico. Il lato migliore però è il lato B. Wrecking Crew manda certosinamente le note in dissolvenza. Una ad una, con calma implacabile. Il disegno musicale lentamente acquista le fattezze di una melodia spastica, anemica per non dire proprio catatonica, ma disturbante il giusto. Come se Loren Connors avesse problemi di ciclo mestruale. La chiusura con Candy Butcher aumenta ancora di più lo stato di depressione e catalessi. Un loop cigolante e malaticcio, come un carrillion caduto per terra e diventato stonato. Lei canta dapprima altissima e solitaria, un po’ verginella sacrificata, un po’ sirena di mezzanotte. Poi man mano che il minutaggio aumenta (in tutto sono 21 minuti) il diavolo entra disperatamente in circolo ed è come se la perdessimo per sempre. La chiusura finale è da horror: niente più suoni ed effetti, risuonano solo le sue parole: “I don’t know who I am / I can’t find my way”. Signore e signori è il blues. Qualcuno chiami l’esorcista, il diavolo l'ha ascoltata.

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