22 gennaio 2008

Odd Clouds - Cleft Foot Of The Woods (Tasty Soil, 2007)

Negli ultimi tempi sono in fissa assoluta per questo disco. Non riesco a staccarmene, davvero, perché letargico com’è ti avvolge, ti stordisce e ti si appiccica addosso come carta moschicida. Allora, giusto due parole per inquadrare la cosa. Lui si chiama Chris Pottinger ed è l’ennesimo virgulto dell’affollatissima scena noise del midwest. Di Detroit precisamente.
Come scritto a pagina 43 nel manuale del perfetto nerd subculturale, il nostro s’è costruito la sua brava etichetta discografica, la Tasty Soil, e i suoi bei progettini sconclusionati: Cotton Museum, Slither (li con Heath Moerland di Sick Llama) e Odd Clouds per l’appunto.
E’ poi illustratore/designer sommariamente art brut -nel sito personale trovate un’ampia gamma di disegni, manifestini, spillette, cover (mancano solo i fumetti se non erro)- e gira inoltre per mostre, anche importanti, in luoghi istituzionali. Insomma, una situazione da tenere d’occhio con una certa attenzione.
L’altro band leader si chiama Jamie “Jimbo” Easter, anch’egli illustratore, scultore, pittore, nonché membro di un altro progetto alquanto interessante, ossia Drona Parva (non quelli su Time-Lag); che poi è/era anche l’ugola dei ben più conosciuti Piranhas (ricordate?). Li, oltre a cantare, si trastullava sfregandosi cocci di vetro sulla faccia. Un vero animale.

Dunque, tornando a Pottinger, che è poi il motore principale degli Odd Clouds, devo dire che inizialmente ero piuttosto scettico sulla bontà del disco, e anche si, parecchio prevenuto.
Ok, non ho mai ascoltato i Cotton Museum, però ecco, le suite in bassa fedeltà degli Slither non mi dicevano molto. Non per la resa lo-fi delle registrazioni -d'altronde qui ci occupiamo di musiche weird, quindi…- quanto invece per l’irrisolutezza che l’impianto sonoro mostrava nel complesso. Nello specifico, si tratta di un impasto mal amalgamato di droni, elettronica e suoni trovati, il tutto rigorosamente improvvisato (o assemblato a caso?). Troppo abulici per i mie gusti e onestamente un po’ amorfi, anche se non disconosco loro un certo appeal. Con un po’ di fantasia mi viene di accostarli ai Graveyards, beh a dei Graveyards che frugano nell’immondizia e che non riescono a cavarne fuori un suono pulito che sia uno, o quantomeno un attimo di lucida follia improvvisativa.
Quindi gli Odd Clouds. Come si fa non amarli? “Cleft Foot Of The Woods” è uno spettacolo già solo per la copertina, comunque poco efficace nel suggerirne il contenuto, ho pensato a posteriori. Si, perchè a prima vista lascia intendere si tratti di un disco ultra noise spastico e devoluto, o almeno io ho percepito questo.
Invece no. Certo il primo pezzo (sono undici tracce senza titolo, concepite nell’arco di tre anni, alcune delle quali registrate durante esibizioni live) è una mazzata percussiva non indifferente. Qui la batteria inscena, senza variazioni, una linea ritmica ossessiva, mentre un drone strisciante e svisate (free) di sax danno corposità e ne supportano l’incedere.

Con la seconda traccia inizia la fase di deambulazione sonnambula, che s’interrompe solo a tratti, o meglio in corrispondenza dei pezzi registrati dal vivo. Entra in gioco un basso drogato a inscenare crepuscoli psichedelici, implosioni improvvise, abluzioni in polveri stellari, per un sound complessivo che non esiterei a etichettare come post rock (che brutta parola, lo so). Chiaro, un post rock da discarica a cielo aperto, o giù di li.
In effetti però, è più una sensazione epidermica, perché anche gli Odd Clouds mi sembrano poco definibili. D’altronde quando la produzione è quella che (non) è, pur con tutta la buona volontà dei musicisti, resta difficile diversificare i suoni. A differenza degli Slither, nonché di molta weird music odierna, qui c’è un indirizzo preciso tuttavia, e soprattutto dinamiche “d’interlplay” ben coordinate. Come nella tracce 4 e 7, dove ingarbugliamenti di free jazz deteriorato -alla Ettrick direi- interrompono l’idillio morfinico. Come la traccia 9, che viaggia per ventiquattro minuti sulle medesime coordinate, in equilibrio instabile tra composizione e improvvisazione.
Va bene, non starò a descrivervi tutto l’ambaradan, anche perché a questo punto rischierei di annoiarvi ulteriormente, però insomma, sapete cosa fare no?

1 commento:

Anonimo ha detto...

Mi piace.

Valerio (non Mattioli)